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Fibromialgia, cefalea, disturbi gastro-intestinali

Progetto di ricerca per la terapia del dolore cronico


Di Martina Ramezzano e Fabio Vassallo con Andrea Vallarino

Nel nostro lavoro quotidiano di osteopati, a stretto contatto con i pazienti e le loro sofferenze, valutando e toccando con mano, abbiamo osservato che la comprensione del dolore e delle sensazioni spiacevoli che la persona vive è molto complessa, non è lineare e le sue origini e le sue cause sono spesso sfumate e non chiare, specialmente nella fase cronica. La pratica clinica giornaliera, nel nostro particolare ambito di ricerca su problematiche croniche come la fibromialgia, anche nel reparto di terapia del dolore presso l’ospedale S. Martino di Genova, ci ha reso sempre più consapevoli del fatto che il sintomo e la sua origine spesso hanno un collegamento ben poco evidente e logico, soprattutto se si tratta di un problema cronico.
Nella clinica ci siamo resi conto che i risultati più evidenti si ottenevano non con la correzione di un’alterata funzione meccanica ma piuttosto lavorando sul sistema globale della persona.
Pazienti con evidenti ed importanti alterazioni negli esami strumentali spesso riportano una sintomatologia lieve se non addirittura assente, rispetto a pazienti con nessun tipo di alterazione ma con sintomi invalidanti.
Anche da questo deriva la difficoltà dei terapeuti di avere successo in maniera costante nel risolvere problematiche apparentemente identiche tra loro, qualsiasi tipo di terapia venga utilizzata. Questo sia perché il dolore è un esperienza fisica ed emozionale piuttosto complessa, e non è quindi l’espressione diretta di un evento sensitivo ma piuttosto è il prodotto di un complesso processo di elaborazione; sia per come viene strutturata e impostata la terapia.
Lo stesso vale per la risoluzione dei sintomi attraverso la terapia, che più che con correzioni strutturali avviene per cambiamenti nel funzionamento globale del paziente.
In maniera pragmatica abbiamo cercato di capire quali fossero i meccanismi della cronicizzazione di quello che avrebbe potuto essere un singolo episodio acuto sintomatico (ancora funzionale ai fini della sopravvivenza) e quali metodi di intervento potevano interromperne il circuito.

Sistema mente-corpo

Possiamo considerare l’organismo come un sistema percettivo-reattivo, una comunità di cellule che comunicano l’una con l’altra, con un flusso di informazioni che scorre in tutto il corpo, attraverso le cellule, gli organi, gli apparati. Questa comunicazione avviene quando le molecole informazionali (peptidi) si legano ai loro recettori, presenti sulle cellule, da un sistema all’altro, creando una rete ininterrotta di scambio, elaborazione e immagazzinamento di informazioni.
I peptidi raggiungono il cervello per farci vivere un’emozione che ci porterà ad assumere un comportamento in funzione della situazione ambientale che l’organismo sta vivendo (per esempio provare paura per farci scappare dal pericolo). Questo flusso di informazioni scatenerà anche una serie di risposte nella fisiologia, destinate a farci reagire in modo funzionale (ad esempio mandare sangue ai muscoli scheletrici per farci scappare più velocemente).
Sulla base di questo non c’è distinzione tra psiche e soma, ma la persona può essere vista in un’ottica di un sistema corpo-mente percettivo-reattivo.
È un sistema che apprende e si regola ai fini della propria preservazione, mantenendo una propria omeostasi. Se inizialmente i suoi adattamenti sono funzionali per la sopravvivenza, successivamente possono diventare disfunzionali. Il classico esempio può essere fatto descrivendo quello che accade con l’esperienza della paura: se in passato la paura ci ha salvato da una situazione pericolosa, attivando una serie di reazioni neurofisiologiche e comportamentali che ci hanno permesso di reagire prontamente al pericolo. Questo schema, se ripetuto quando non necessario, può diventare disfunzionale, limitando le possibilità di vivere una vita soddisfacente e iperattivando il sistema dello stress. Questo perché l’organismo tende a mantenere la propria situazione di equilibrio omeostatico, anche se disfunzionale, manifestando una resistenza al cambiamento, come un sistema cibernetico a controllo retroattivo. L’organismo si oppone al cambiamento ripetendo gli stessi schemi (neurobiologici, comportamentali, sistemici), cercando di preservare il proprio stato attuale, ripetendo ciò che ha funzionato in passato, sulla base delle esperienze vissute.

Il dolore

La stessa cosa accade con il dolore, che dal punto di vista biochimico, è a tutti gli effetti un’emozione.
Nella fase acuta il dolore è funzionale ai fini della sopravvivenza, spingendo per esempio la persona a riposarsi o prendersi cura di se, nella fase cronica invece non ha più nessuna utilità, diventando disfunzionale. È stato dimostrato che il dolore quando diventa cronico, da un problema nocicettivo diventa un problema emotivo.
In uno studio lo psicofisiologo Julian Thayer ha analizzato cosa succede nel cervello quando il dolore diventa cronico. Lo studio si basava su pazienti che sono stati testati e analizzati per 60 settimane; alcuni di questi avevano avuto un episodio acuto di dolore che si è risolto dopo circa 10 settimane, un altro gruppo aveva avuto un episodio acuto che non si è risolto, permanendo un dolore cronico per più di un anno.
Nei pazienti in cui il dolore si è risolto, a livello delle regioni nocicettive (del dolore) e delle regioni emozionali è avvenuta, inizialmente, un’attivazione che poi è diminuita.
Dall’altra parte, nei pazienti con dolore cronico, si è presentata un’attività nelle regioni nocicettive che è diminuita nel tempo, invece nelle regioni che presiedono alle emozioni, si è osservato un aumento dell’attività.
Le reazioni della persona all’emozione del dolore sono ciò che porta al suo superamento o alla sua persistenza. Dal punto di vista neurologico è ciò che determina se la via del dolore sarà facilitata o inibita.

Terapia psicosomatica

Da questo nasce un metodo di intervento, sviluppato a fini di ricerca, per un approccio integrato psicoterapeutico (breve strategico) e osteopatico, per la gestione del paziente sia nella fase cronica sia in quella acuta, lavorando insieme e sinergicamente sul sistema percettivo-reattivo della persona, con lo stesso approccio al paziente e alla problematica.
Il metodo di intervento sviluppato insieme al dr. Vallarino è applicabile a diverse problematiche croniche (fibromialgia, cefalea, disturbi gastrointestinali ecc). Può trovare applicazione anche nella fase acuta impendo al problema di cronicizzarsi.
È un intervento sul sistema percettivo-reattivo, visto come un sistema cibernetico, per l’interruzione del circuito cronico, che si discosta dalla vecchia visione di causa-effetto, dove la terapia più efficace non è ricercare la causa del problema e correggerla, bensì provocare un cambiamento, rendendo gli adattamenti, che il sistema corpo-mente mette in atto, meno rigidi, con più possibilità di scelta.

Nella ricerca si tiene conto del profilo psicologico del paziente (ossessivo, fobico, isterico ecc.) che contribuisce a determinare la percezione del dolore, la reazione allo stesso e il funzionamento del sistema in generale.
Questo metodo di approccio è volto a semplificare il sistema del paziente, che già da solo è bravo a complicarsi la vita. Come nelle psicopatologie (secondo l’approccio sistemico) la cronicizzazione del problema nasce dai tentativi della persona di gestire il problema stesso, questi tentativi di controllo sono proprio ciò che porta la persona ad intrappolarsi da sola in meccanismi dai quali non riesce più ad uscire.

Sul corpo verranno valutati i meccanismi che l’organismo mette in atto per gestire i sintomi.
E’ importante valutare gli schemi disfunzionali ripetuti che si manifestano in risposta alla vita e alla problematica stessa, contribuendo a mantenere la problematica cronica ad esempio: posizioni antalgiche, variazioni nella respirazione, controllo muscolare, variazioni posturali, variazioni nella meccanica articolare, schemi motori, variazioni nel funzionamento del sistema neurovegetativo (responsabile delle funzioni involontarie dell’organismo). Si tratta di una valutazione clinica del corpo nell’ottica di un sistema cibernetico, valutando ciò che il corpo fa per mantenere il suo stato di omeostasi, con quali meccanismi tende ad opporsi al cambiamento, mantenendo il suo stato attuale.
L’esame della postura è sicuramente uno dei modi più semplici immediati ed evidenti per valutare come l’organismo si organizza in funzione dell’ambiente interno ed esterno. La disposizione del corpo nello spazio, l’organizzazione del sistema neuro-muscolo-scheletrico, la facilitazione di mobilità di un’articolazione in una direzione, deviazioni dall’asse centrale, chiusure ecc., sono una manifestazione dell’autoregolazione di un sistema di comunità cellulare che percepisce e reagisce.
La salute corrisponderà ad un passaggio da una rigida e disfunzionale posizione percettiva-reattiva, ad una condizione elastica con più possibilità di scelta.
Un corpo più rigido in un determinato atteggiamento posturale avrà meno possibilità di adattarsi, meno capacità di movimento, meno possibilità, proprio come la mente.

Tutto ciò lo osserviamo non in un ottica di causa-effetto, ma di ricerca delle resistenze al cambiamento, in un sistema circolare che è tale anche nella sua componente fisica.

Nella clinica, condurre la persona a liberarsi dai propri tentativi fallimentari di gestire il dolore rappresenta una buona parte della terapia.
Dal punto di vista comportamentale il paziente mette in atto delle tentate soluzioni nei confronti della problematica stessa, di cui il terapeuta deve tenere conto, per esempio: una terapia farmacologica sintomatica protratta, evitare situazioni o attività che possono aumentare il dolore, terapie fallimentari, abuso di farmaci, che invece di portare a uno stato autonomo di salute, diventeranno delle “stampelle” con le quali la persona continuerà a zoppicare invece che reimparare a camminare.

Trattando un paziente con reflusso gastroesofageo cronico, si è raggiunta la massima efficacia terapeutica lavorando sia sul corpo: interruzione dei circuiti biologici facilitati, come l’iperproduzione di secrezioni gastriche, trattando l’alterata meccanica respiratoria, lavorando sul controllo neurovegetativo dell’organo, sia valutando le reazioni disfunzionali che il paziente aveva messo in atto per risolvere il problema, spinto dalla sua componente ossessiva, come per esempio evitare tutti gli alimenti che secondo il paziente potevano portare ad una cattiva digestione, le attenzioni nell’orario di assunzione dei pasti, i rimedi naturali e farmacologici assunti per un periodo protratto.

Questo metodo di lavoro sul corpo viene arricchito da un atteggiamento terapeutico volto al cambiamento e all’autonomia del paziente, per esempio utilizzando una precisa tempistica delle sedute, allungando i tempi tra una incontro e il successivo, proprio come nella terapia breve e strategica, togliendo a poco a poco le tentate soluzioni che il paziente mette in atto nella vita e nei confronti della problematica cronica.

Si ricercherà un’esperienza emozionale correttiva, che creerà un cambiamento nel sistema, portando la persona verso un nuovo modo di percepire la realtà, se stessa ed il corpo. Verso un nuovo modo di sentire.

Ci auspichiamo che questo progetto si concretizzi nella realizzazione di un centro di ricerca per il dolore e le problematiche croniche, dove venga applicato un metodo utilizzabile dai terapeuti che lavorano con il dolore, che affonda le sue radici nella terapia sistemica e nei principi dell’osteopatia che vede la persona come un’unità di corpo mente e spirito.

Bibliografia

• J. Koenig, A. Loerbroks, M. N Jarczok, J. E Fischer, J. F Thayer, Chronic pain and hearth rate variability in a cross-sectional occupational sample: evidence for impaired vagal control. Clin J Pain. 2016 mar; 32 (3):218-25
• E. R. Kandel, J. H. Schwartz, T. M. Jessell, Principi di neuroscienze, 2014, CEA
• F. Benedetti, Il dolore, 2019, Carocci editore
• G. Nardone, P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, 1990, Ponte alle Grazie
• C. B. Pert, Molecole di emozioni, 2016, TEA
• F. Benedetti, L’effetto placebo, 2018, Carocci editore
• F. Bottaccioli, Epigenetica e psiconeuroendocrinoimmunologia, 2014, Edra

Inventata a Genova lʼinsulina “intelligente” che rivoluzionerà la vita dei pazienti diabetici

Articolo di Fabio Canessa pubblicato su Genova24.it, 23 Gennaio 2022, riportato per gentile concessione.
Complimenti vivissimi all’amico e collega Angelo De Pascale per la stupenda invenzione

Paolo Decuzzi (Iit) e Angelo De Pascale (policlinico San Martino), gli inventori dell’insulina intelligente

I ricercatori del San Martino e dell’Iit hanno sviluppato una sostanza che ricrea un “pancreas artificiale” in grado di sostituire le iniezioni quotidiane: ecco come funziona 

Genova. Immaginate che un paziente diabetico, costretto a controllare la glicemia e ad assumere insulina più volte al giorno, possa condurre una vita normale con una sola iniezione ogni 15 giorni o addirittura una volta al mese, dimenticandosi tutto il resto. È lo scenario, oggi fantascientifico, che potrebbe diventare realtà nel giro di qualche anno grazie a unʼinvenzione nata a Genova dalla collaborazione tra il reparto di endocrinologia del policlinico San Martino e il laboratorio di nanotecnologie dellʼIstituto italiano di tecnologia, con lʼappoggio dellʼuniversità americana di Stanford.
I suoi ideatori lʼhanno battezzata “insulina intelligente” e ne hanno già depositato il brevetto dopo aver concluso con successo la prima sperimentazione sugli animali.
“Lʼidea è nata tre anni fa leggendo alcuni articoli di ricercatori americani che cercavano di modificare unʼinsulina già in commercio in modo che diventasse intelligente, affinché agisse solo in presenza di alti livelli di glicemia – racconta Angelo De Pascale, diabetologo responsabile dello studio per il policlinico San Martino -. Allora ho avuto lʼintuizione: usare le nanotecnologie. In maniera fortunata ho incontrato Roberto Cingolani, che allʼepoca era direttore dellʼIit, e gli ho presentato lʼidea”.
Ed è così che viene coinvolto Paolo Decuzzi, direttore del laboratorio di nanotecnologie, insieme ai suoi collaboratori, Rosita Primavera, attualmente senior scientist dellʼUniversità di Stanford, Martina Di Francesco e Daniele Di Mascolo: “Non avevamo mai lavorato sul diabete – precisa Decuzzi – quindi abbiamo dovuto prima studiare la patologia. Il pancreas ha cellule specifiche che producono granuli di insulina di circa 300 nanometri. Questi granuli vanno in circolo e progressivamente si disciolgono, andando a regolare la quantità di zuccheri nel sangue”.

Ecco quindi lʼidea rivoluzionaria: ricreare una sorta di pancreas artificiale che possa funzionare autonomamente a prescindere da cosa fa il paziente e da quello che mangia. Spiega ancora Decuzzi: “Abbiamo realizzato delle micro-particelle di dimensioni comparabili alle cellule del pancreas, solo 20 micron più piccole, utilizzando un polimero chiamato PLGA (acido polilattico-co-glicolico), già ampiamente sfruttato in ambito clinico, biodegradabile e biocompatibile. Allʼinterno di questa struttura abbiamo disperso granuli di insulina da 200 nanometri, un poʼ più piccoli di quelli naturali. Nel tempo questi granuli vengono messi in circolo, in parte perché la struttura del polimero si degrada e in parte perché lʼacqua che penetra li discioglie. Così si ottiene un continuo rilascio di insulina”.

Superata la sperimentazione in vitro, lʼinsulina intelligente è stata testata sugli animali nei laboratori dellʼUniversità di Stanford, secondo rigidi protocolli che passano anche dallʼapprovazione di un apposito comitato etico. E i risultati sono stati confortanti: “Abbiamo reso diabetici alcuni topolini distruggendo le cellule che producono insulina – racconta De Pascale – e abbiamo iniettato loro questi micro-contenitori attraverso il peritoneo. La glicemia si abbassava fino ai valori dei topi sani, poi si manteneva sempre agli stessi livelli di normalità per 10 giorni nonostante si nutrissero e facessero una vita normale. Fatto sta che, in quellʼarco di tempo, i topi non sono mai andati in iperglicemia e nemmeno in ipoglicemia. Il rilascio è sempre avvenuto in maniera complementare: iniettando glucosio in peritoneo, si è visto che la quantità di insulina liberata si è alzata. Il sistema ‘senteʼ il livello di glicemia pur in assenza di un sensore specifico”.
Obiettivo raggiunto? Ovviamente no: la ricerca è ancora alle fasi iniziali e ci sono ancora molti margini di miglioramento. “Adesso – continua Paolo Decuzzi – in collaborazione con una tesista in medicina dellʼUniversità di Genova, Giulia Morando, stiamo continuando a sviluppare le particelle cambiandone le dimensioni e le proprietà fisico-chimiche in modo da controllare ancora meglio il processo di rilascio e far sì che i 10 giorni possano diventare 20 o 30“. Un altro passo avanti potrebbe essere lʼaggiunta di un enzima, la glucosio ossidasi, che funziona da sensore per regolare il passaggio di insulina nel sangue, un potenziamento che tuttavia potrebbe complicare il processo di manifacturing, cioè la produzione del farmaco.

In ogni caso questa tecnologia, se portata ai livelli di efficienza sperati, è destinata davvero a stravolgere in positivo la vita dei pazienti diabetici, che in Italia sono complessivamente 5 milioni, e soprattutto di quelli affetti da diabete mellito di tipo 1, circa 300mila nel nostro Paese. “Per chi fa lʼinsulina sottocute il rischio è sempre dietro lʼangolo – ricorda Angelo De Pascale -. Basta muoversi di più o mangiare di meno per alterare il livello di zuccheri nel sangue e andare incontro a ipoglicemie a volte gravi, senza contare che il diabete con le sue alterazioni porta a complicazioni come patologie cardiovascolari, retinopatia e nefropatia. Con questo metodo il paziente si dimentica di essere diabetico per un mese, fa tutto quello che vuole senza preoccuparsi e avrà sempre la glicemia sotto controllograzie a un sistema che sostituisce completamente le funzioni del pancreas”.

Lo step successivo sarà rappresentato dalla sperimentazione in modelli di diabete più complessi. Al momento lʼiniezione in zona peritoneale è considerata la più efficace, ma verrà tentata anche la “normale” via sottocute, ben nota ai pazienti diabetici e più pratica da eseguire in totale autonomia. In un paio dʼanni si conta di arrivare alla sperimentazione clinica sugli esseri umani e il San Martino si è già attivato per ottenere lʼautorizzazione a procedere alla fase 1. Le prospettive sono rosee ma il cammino non sarà né breve né semplice. Per ora i fondi sono stanziati quasi interamente dallʼIit che detiene lʼ80% dei diritti sul brevetto (il 10% spetta al San Martino tramite De Pascale e il restante 10% a Stanford), ma in futuro bisognerà trovare altri canali propedeutici allo sviluppo su larga scala e alla commercializzazione.

Prima di avere questo sistema disponibile ci vorranno almeno 4-5 anni, di cui sicuramente ancora un paio dʼanni di ricerca pre-clinica con esperimenti in altre sedi – riflette Decuzzi -. Non vedo grossi limiti a livello tecnologico.
La grande sfida da superare, qualora si decidesse di andare avanti, è la creazione di una company che possa gestire lo sviluppo fino a un certo livello di trial clinico. Quando parliamo di nanotecnologie è tutto diverso rispetto alle singole molecole: anche i vaccini anti-Covid a mRna sono nanotecnologie, e non è un caso che BioNTech abbia trovato Pfizer per aumentare la capacità produttiva finale. Ma il mondo delle grandi industrie farmaceutiche tende ad essere conservativo, loro non investirebbero mai in un sistema di questo tipo se non è già stato dimostrato un suo funzionamento sullʼuomo. Solo dopo aver superato una fase 1 o 2, una grande casa farmaceutica investirà decine di milioni di euro per passare alla fase 3′′.

Nel frattempo si continua a lavorare e Genova ha tutte le carte in regola per diventare protagonista di unʼinvenzione storica, che si è concretizzata proprio nel centenario della scoperta dellʼinsulina, avvenuta nel 1921 per opera di due ricercatori canadesi dellʼuniversità di Toronto. “In letteratura scientifica non cʼè alcun sistema simile al nostro”, assicura Decuzzi. “Siamo gli unici in Italia e credo anche in Europa a lavorare su un progetto simile – conferma De Pascale – e siamo convinti che un domani anche il nostro policlinico potrà averne un ritorno notevolissimo”. 

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La psicoterapia applicata alle patologie mediche: prospettive di una scienza medica con l’anima

il diabete GIOVANILE

Sono un medico e sono anche uno psicoterapeuta. Uno dei miei obiettivi in questi anni è stato coniugare la medicina e la psicologia. Troppo spesso nella pratica si tende a distinguere le aree di influenza, sulla scia della distinzione tra mente e corpo ipotizzata da Aristotele. Ma prima di Aristotele, era Ippocrate che è stato il primo medico ma anche il primo psicologo.  Lui, che era il nipote di Protagora, per dare una prescrizione si rifaceva alle tecniche di persuasione della filosofia sofista, cioè alle più antiche vestigia occidentali della moderna psicologia. Si narra che tutte le volte che aveva un paziente difficile si facesse accompagnare al capezzale del malato da suo zio perché persuadesse il malato ad affidarsi alle sue cure. La moderna tecnologia applicata alla medicina ha acuito la distanza tra chi cura il soma e chi cura la mente. La medicina moderna è stata investita a tal punto dalle innovazioni tecnologiche, da mettere in secondo piano addirittura l’anamnesi ed il vecchio caro esame obiettivo, cioè il colloquio con il paziente per raccogliere la sua storia clinica e la visita a mani nude del medico, con l’ausilio tecnico del solo fonendoscopio, che però restano ancora validi strumenti diagnostici ed anche i più economici. So che agli occhi del lettore ed anche di qualche medico questo possa sembrare un tentativo romantico di rivalutazione di cose ritenute obsolete. Però posso garantire che la tecnologia non ha ancora soppiantato il dialogo col paziente e la normale visita al letto del malato. Nella mia pratica di psicoterapeuta, proprio perché noi parliamo con i pazienti, mi è anche capitato di dover contrastare la diagnosi di tumore fatta dalle Risonanze e dalla Tac e dopo varie diatribe vedermi dare ragione dal collega chirurgo alla vigilia di un intervento già programmato. Un buon colloquio può addirittura sfatare la diagnosi di carcinoma pancreatico, nel caso in questione, seppur fatta con le più avanzate tecniche diagnostiche, con la conseguenza di rimandare un signore alle sue buone abitudini di pensionato invece che in sala operatoria con una diagnosi infausta. Appunto una scienza medica che sa usare la tecnologia, ma che conserva l’anima, cioè la considerazione della narrazione del paziente, della sua originalità anche nell’evidenziare i sintomi o i presunti sintomi di malattia.  

Un campo dove è evidente la connessione tra mente e corpo, tra parola e tecnica, è nel capitolo delle malattie psicosomatiche, dove si può guarire il corpo a partire dalla mente e dove si può viceversa guarire la mente a partire dal corpo. Malattie dermatologiche ed immunologiche sono altrettanti terreni dove la psicoterapia può coadiuvare la medicina nell’ottenere miglioramenti o guarigioni. Particolarmente evidente è il collegamento tra mente e corpo nelle malattie dismetaboliche. Nella pratica quotidiana di psicoterapeuta sono già centinaia i casi di persone che venute da me per un qualche problema psicologico, una volta terminata con successo la psicoterapia, hanno visto tutti i parametri biologici normalizzarsi. Ormoni tiroidei tornati nella norma, enzimi epatici e pancreatici rientrati nel normale range, ovviamente documentati con costanti monitoraggi dai colleghi endocrinologi e gastroenterologi. Nulla di magico o illusorio. Il collegamento tra cervello, sede della mente, e corpo è chiaro anche da un punto di vista anatomico, basti fare riferimento all’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide-organi metabolici: intestino, fegato…

Sulla scia di queste riflessioni, d’accordo con un collega endocrinologo ospedaliero si è deciso di quantificare questa connessione. Si è scelto di cominciare con il Diabete di tipo I, il Diabete Giovanile. Accanto a studi sulle nano-tecnologie effettuati dal collega, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, per la messa a punto di sistemi sempre più intelligenti di perfusione con l’insulina, quindi accanto a studi tecnologici di eccellenza, in via sperimentale si è deciso di lavorare con un gruppo di pazienti per abbinare alle terapie mediche la Psicoterapia Strategica. La Terapia Strategica Giorgio Nardone’s model[1] è particolarmente adatta a collaborare con la medicina perché è un approccio pragmatico che ha l’obiettivo di sbloccare rigidità del Sistema Percettivo Reattivo, nel caso in questione relative alla diagnosi inaspettata di diabete nel giovane e per avere la peculiarità di lavorare sulle risorse della persona intatte e potenzialmente disponibili per superare i limiti imposti dalle terapie mediche. L’obiettivo è curare non solo la malattia, ma diagnosticare come la malattia venga inserita nella narrazione della persona, nel suo sistema di percezione della realtà e come la terapia per funzionare al meglio debba essere inserita in quella narrazione. Come spiega il genetista Sermonti[2], la scienza dimostra di avere un’anima nel momento in cui si inserisce in una narrazione, in questo caso la narrazione individuale, che è l’originalità del paziente con i suoi valori. Curare ad esempio un atleta vuol dire garantirgli la possibilità di proseguire l’attività e di avere performance: la leva terapeutica è l’obiettivo sportivo; una  giovane donna potrebbe invece avere l’obiettivo della maternità. Da un punto di vista strettamente tecnico faremo uno studio longitudinale, cioè valuteremo l’andamento dei cambiamenti dei parametri metabolici dopo psicoterapia in rapporto all’andamento prima della psicoterapia ed al variare dell’atteggiamento psichico nei riguardi della patologia. In seguito si effettuerà una ricerca trasversale: valuteremo l’andamento dei parametri metabolici nelle persone seguite con psicoterapia rispetto a pazienti trattati solo da un punto di vista biologico ovviamente a parità di età, condizione socio-economica e culturale, compenso del diabete, peso, comportamento dietetico.

In un recente libro, Fabrizio Benedetti, neurofisiologo dell’Università di Torino, ha stabilito che le parole possono coadiuvare i farmaci nel guarire le malattie. Le buone parole influenzano la secrezione di neurotrasmettitori, favorendo anche da un punto di vista organico processi di guarigione[3]. Quello che andiamo a sperimentare è l’influenza di buone parole e di buone strategie sull’andamento clinico della terapia farmacologica e sulla qualità della vita di pazienti medicalizzati. La psicoterapia non sarà intesa in modo riduttivo, come d’altra parte spesso avviene, come un supporto al paziente medicalizzato, ma come un agente complementare ed integrato alla terapia complessiva del paziente.

Lo studio è stato da poco pianificato, ma è stato già svolto qualche incontro di gruppo con i pazienti, che si sono dimostrati entusiasti dell’idea, testimoniando che quando gli operatori sanitari propongono qualcosa di innovativo non solo da un punto di vista tecnologico ma anche umano il consenso e la collaborazione sono garantiti.

[1] Nardone, G.; Watzlawick, P., L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Milano, 1990

[2] Sermonti, G., Una scienza senz’anima, Lindau, Torino, 2019 (prima pubblicazione 2008)

[3] Benedetti, F., La speranza è un farmaco, Mondadori, Milano, 2018