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Disturbi specifici dell’apprendimento

Non lavoro quasi mai sui disturbi dell’apprendimento direttamente o nelle istituzioni scolastiche. Ma nel lavoro di studio spesso vengo interpellato da genitori che, su indicazione degli insegnanti, chiedono interventi sui figli per migliorare o superare difficoltà scolastiche. Uno degli argomenti su cui vengo sempre più spesso interpellato è la dislessia. Diagnosi che, per altro, è sempre più frequente. Storicamente è nata negli Stati Uniti quando nelle scuole alla popolazione studentesca di origine irlandese si era aggiunto un folto drappello di studenti di origine ispanica che ovviamente non conosceva la lingua inglese. Gli insegnanti chiesero alle direzioni delle scuole un insegnante d’appoggio per poter dialogare con gli studenti stranieri, un insegnante di sostegno che potesse fungere da interprete e da mediatore culturale. I direttori per esaudire la richiesta dovevano accedere a fondi aggiuntivi che sarebbero stati stanziati solo dietro presentazione di una diagnosi medica che stabilisse la necessità di un insegnante d’appoggio per l’allievo. I medici interpellati inventarono quindi la dislessia, letteralmente difficoltà nella parola, frase e avevano difficoltà nell’inglese perché spagnoli. La diagnosi venne poi importata in Europa e presa per buona.

Memore di queste origini, tutte le volte che mi viene presentato uno studente come dislessico, vado cauto nell’intervento e mi preoccupo innanzitutto di non etichettare l’alunno.

Viene da me una signora preoccupata per la figlia di 9 anni che frequenta la terza elementare. La signora, in precedenza mia paziente per un problema clinico risolto completamente, mi riferisce che le maestre della figlia hanno diagnosticato difficoltà di apprendimento della figlia ed una dislessia per la quale vogliono indirizzarla ad una consulente esterna alla scuola dove di solito indirizzano i bambini con problemi analoghi. Preoccupata spiega che lei vorrebbe che l’intervento lo facessi io. Innanzitutto cerco di sdrammatizzare, spiegando che il disturbo diagnosticato non ha una grande incidenza, come viene invece modernamente ritenuto. Dico alla signora di tornare dalle maestre e di riferire che abbiamo già iniziato a lavorare con la bambina e che le ringrazio perché sono state tempestive nel diagnosticare il problema. Dico anche di riferire che a breve vedranno i primi risultati. La signora rincuorata provvede a fare quello che le chiedo. Non vedo la bambina e chiedo semplicemente alla signora di riferirmi quello che eventualmente le diranno le maestre. Trascorrono circa due mesi, dopo di che ricevo una telefonata dalla signora, molto preoccupata a giudicare dal tono della voce. Mi spiega che le maestre nella nuova tornata di colloqui con i genitori le hanno riferito degli enormi progressi fatti dalla bimba e si complimentano per il notevole rendimento scolastico raggiunto negli ultimi tempi. Bravissima nella lettura, praticamente la migliore della classe. Chiedo allora come mai sia così preoccupata e mi spiega che le maestre hanno chiesto il mio recapito per poter inviare altri bimbi da me. Come glielo spieghiamo che abbiamo usato un trucco? Effettivamente sono poi stato contattato dall’Istituto per poter lavorare sui disturbi di apprendimento dei bambini, ma ho trasformato la richiesta in una serie di supervisioni agli insegnanti per fare in modo di lavorare attraverso di loro senza vedere i bambini, salvo in casi particolari.

Come è potuto succedere che una dislessia sia stata curata in due mesi senza intervento?

L’intervento c’è stato ma non sul bambino, si è intervenuti sulla percezione del bambino da parte dell’insegnante. Con poche parole si è dirottata l’attenzione dell’insegnante dagli errori della bambina a quanto invece di buono faceva. Ciò crea quello che in comunicazione si chiama profezia che si autoavvera. Andando a cercare i miglioramenti dell’allieva la maestra li crea. Avviene quello che in letteratura va sotto il nome di effetto pigmalione. Lo Psicologo Robert Rosenthal dell’Università di Harvard nel suo libro dal titolo “Pigmalione in classe” riferisce di un esperimento condotto alla Oak-school. Come descrive Paul Watzlawick nel libro “La realtà Inventata” si tratta di una scuola elementare con 18 maestre e più di 650 allievi. La profezia autodeterminantesi veniva indotta negli insegnati nel seguente modo: prima dell’inizio di un determinato anno scolastico si sottoponevano gli allievi a un test di intelligenza; alle maestre si comunicava che, oltre a stabilire i livelli di intelligenza, il test avrebbe anche consentito di individuare quel 20% di scolari che durante l’imminente anno scolastico avrebbero fatto rapidi progressi e fornito prestazioni al di sopra della media. Dopo l’attuazione del test d’intelligenza, ma ancora prima che avessero incontrato il loro nuovi allievi, le maestre ricevevano i nomi (presi in modo del tutto arbitrario dall’elenco degli scolari) di coloro che, in base al test, si poteva supporre con un certo grado di sicurezza che avrebbero fornito prestazioni eccezionali. La differenza fra questi e gli altri bambini esisteva soltanto nella testa della maestra in questione. Quando alla fine dell’anno scolastico lo stesso test di intelligenza veniva ripetuto, esso mostrava realmente un aumento al di sopra della media del quoziente d’intelligenza e delle prestazioni degli allievi che erano stati prescelti, e i racconti delle insegnanti dimostravano inoltre che questi bambini si distinguevano positivamente dai loro compagni di scuola anche per il loro comportamento, per la loro curiosità intellettuale, per il loro spirito di collaborazione e così via. Lo stesso è avvenuto per la nostra giovane allieva.

L’intervento è molto fine perché oltretutto evita di etichettare il bambino. In psicologia la diagnosi non descrive la malattia, ma la inventa. E’ il fenomeno del “labeling” ovvero dell’etichettamento. Uno degli esempi più fulminei di questo lo sia ha in una ricerca fatta da David L. Rosenham. Un gruppo di otto pseudopazienti, tra cui psicologi e psichiatri, che decisero segretamente, a scopo di ricerca, di presentarsi in vari ospedali lamentando sintomi e disturbi di natura psichiatrica (sentivano delle voci). Furono tutti quanti ricoverati in reparti di psichiatria.

Dopo qualche giorno di ricovero avrebbero dovuto mostrarsi per quello che erano e cioè persone “sane”. Tutte le volte che gli veniva chiesto come stavano esibivano la loro salute mentale, dicendo come d‘altra parte era vero, che si sentivano bene, che non sentivano le voci, che non avevano più nessuno dei sintomi psichiatrici per cui erano stati ricoverati con la diagnosi di “schizofrenia”, né avevano alcun altro sintomo. Non ci fu verso perché tutti vennero dimessi dopo altri lunghi giorni e settimane di ricovero con la diagnosi confermata di “schizofrenia” anche se in remissione. Gli unici che si accorsero del ‘gioco’ furono gli altri pazienti che individuarono gli ‘infiltrati’, dicendo: ‘…tu non sei pazzo, tu sei un professore universitario; …tu un giornalista…, etc.’. Una falsa etichetta crea una realtà vera: il ricovero in psichiatria. Nel caso di giovani studenti l’imperativo medico deontologico “primum non nocere” è particolarmente importante e consiste innanzitutto nell’evitare le etichette diagnostiche.

Progetto per una psichiatria dal volto umano

Ho assunto da circa un anno la direzione sanitaria di alcune Comunità Psichiatriche. Inizialmente l’ho fatto per simpatia verso i gestori, persone alcune con le quali collaboro da anni. Avevo qualche riserva sul piano professionale, in quanto le strutture sono istituzioni psichiatriche e pertanto distanti da quella che è la mentalità di noi strategici. Infatti, si tratta di ricoveri anche di lunga durata in comunità, che per quanto aperte e propedeutiche ad una vita autonoma, risultano estranee ai contesti di vita delle persone. Gli utenti sono pazienti dei servizi pubblici, con storie psichiatriche travagliate, costellate di ricoveri e Trattamenti Sanitari Obbligatori, diagnosi che lasciano poco spazio alla speranza: psicosi, disturbo schizoide di personalità… Etichette pesanti, comunicate anche ai famigliari, che guardano al futuro dei propri figli con amarezza e rassegnazione senza più investimenti educativi. Le terapie praticate sono principalmente a base di farmaci, neurolettici ed antidepressivi in primis.

Ho assunto questo lavoro anche con la motivazione della sfida. Una volta, in un seminario tenuto in un servizio pubblico, una collega psichiatra mi aveva contestato dicendomi che avrebbe voluto vedermi lavorare con persone che per condizione economica e sociale non avrebbero potuto permettersi una psicoterapia o non ne avrebbero retto gli effetti. Invece io credo che si possa essere strategici anche con pazienti che per storia sociale e sanitaria risultano “oggettivamente” meno dotati. D’altra parte i padri dell’approccio strategico avevano lavorato principalmente, se non esclusivamente, con pazienti istituzionalizzati. Don D. Jackson aveva fondato il Mental Research Institute proprio a partire dal lavoro su psicotici ed i loro famigliari. Milton Erickson aveva avviato le sue “terapie non comuni”  in ospedale psichiatrico. Dovendo trattare con persone psicotiche e con disturbi di personalità, ho usato principalmente le manovre che si usano in questi casi, secondo la Terapia Breve Strategica (Giorgio Nardone model): il controdelirio, la congiura del silenzio ed il rituale del pulpito, il diario del delirio e delle paranoie, ma soprattutto la relazione carismatica.

Controdelirio

L’esempio più fulmineo di controdelirio che io ricordo è il caso descritto da Don D. Jackson del paziente che entra nella stanza della seduta psicoterapeutica, si siede e dice: “Dottore, dottore, lei sa che qui in questa stanza ci sono delle microspie?” Ed il dottore disse: “ Ah, sì? Cerchiamole!” Si misero a cercare insieme le microspie per un po’, finché il paziente si fermò e disse: “Dottore, qui uno dei due è pazzo!”  Secondo la logica della contraddizione, il limite di un delirio è un delirio più grande, per cui la strategia usata con i pazienti in questi casi è o assecondare il delirio, condividendolo con il paziente, o idearne uno simile per struttura, ma più grande per contesto. Un medico o uno psicologo, semplicemente assecondando un delirio, creano un doppio legame terapeutico al posto dei doppi legami patogeni  cui sono stati sottoposti i pazienti nei loro contesti. Analogamente nella comunità si creavano di volta in volta controdeliri calzanti. Ad un delirio religioso si rispondeva con un controdelirio religioso. Ad un delirio su base tecnologica (mi spiano attraverso il computer), si rispondeva con un controdelirio tecnologico.

La congiura del silenzio

Occorre evitare quello che tutti fanno sulle psicosi, basandosi sul senso comune e cioè le razionalizzazioni, le rassicurazioni, il dialogo, che ho visto fare anche da eminenti psichiatri, tutte cose che non funzionano, perché il portare a ragione il delirio lo fa radicare sempre più. Per cui è stata data la direttiva agli educatori ed agli operatori della comunità di evitare durante la giornata rassicurazioni o dialoghi sui sintomi. Ogni giorno, però, ciascun paziente aveva diritto ad una mezzora, contrattata nei tempi e negli spazi, di ascolto sui sintomi. L’operatore dava il palcoscenico in seduta, e cioè ascoltava in religioso silenzio il fiume delirante o paranoide della persona. In più o alternativamente si usava il diario del delirio. Si prescrive al paziente “tutto il contenuto delirante che tu hai o che tu senti, lo scrivi e lo porti a me così lo analizziamo”.

Relazione carismatica

L’evidenza che più balza all’attenzione nel lavoro con queste persone sono le tentate soluzioni  degli operatori anche i più qualificati: o evitare il contatto perché troppo impegnativi (non è un caso che nelle strutture sanitarie l’avanzamento di carriera coincida con l’allontanamento dai pazienti. A volte ha più contatto con il paziente difficile lo specializzando che il direttore); o diventare complementari rispetto alle patologie con atteggiamenti di disponibilità “amichevole” che di fatto contribuiscono a cronicizzare il paziente. Abbiamo invece favorito una relazione che desse disponibilità, ma anche direttività, accoglienza rispetto ai sintomi ed alle visioni distorte, ma sistematicità nel perseguire gli obiettivi terapeutici. In particolare nei pazienti con disturbo borderline di personalità non sono tanto importanti le tecniche quanto il carisma dell’operatore, che deve proporsi come un buon modello. Per questo è stata data molta importanza, nella formazione dell’operatore di comunità, all’uso della comunicazione non verbale: il sorriso, lo sguardo, la postura, la gestione dello spazio prossemico ed il  loro uso nel colloquio con le persone, cioè di tutti quegli aspetti che contribuiscono a fare dell’operatore un modello da seguire.

L’effetto dell’approccio strategico ad un’utenza da sempre trattata in modo tradizionale è stato eclatante. Come i pazienti descritti dal neurologo Oliver Sacks nel libro Risvegli, sembravano ridestarsi di fronte ad una comunicazione tanto diversa. Non più diagnosi psichiatriche e terapie farmacologiche, ma comunicazioni terapeutiche con possibilità di soluzioni. Non più tremori alle mani, effetto collaterale di neurolettici, ma possibilità di ridurre i farmaci in modo controllato. Dopo un anno di lavoro è ancora presto per stilare statistiche, ma devo dire che a giudicare da ritorni a scuola ed avviamenti al lavoro insperati, i primi risultati sono incoraggianti e spingono ad ulteriori sperimentazioni.

BIBLIOGRAFIA
  • Haley, J., Uncommon Therapy, The psychiatric techniques of M. Erickson M.D., W.W. Norton and Co., New York; tr. it., Terapie non comuni, Astrolabio, Roma, 1976;
  • G. Nardone, P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990;
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  • Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fish, R., Change: principles of problem formation and problem solution, W.W. Norton Co., New York; tr. it., Change: la formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma.
  • Sacks, O., Awakenings; tr. it., Risvegli, Adelphi, Milano, 1995.