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Alle radici umane dell’approccio strategico: Paul Watzlawick e Heinz von Foerster visti da vicino

Solo una grande anima osa avere uno stile semplice. Stendhal

Ho incontrato di persona Paul Watzlawick un giorno di luglio del lontano 2002. Prima lo avevo conosciuto nelle conferenze, dai libri, ma non ero mai riuscito a stringergli la mano. Nel luglio del 2002 a S. Francisco, California, era stata convocata la conferenza internazionale “On The Shoulders of Giants” (Sulle Spalle dei Giganti) convocata proprio per onorare i grandi della terapia strategica o la loro memoria: Watzlawick, von Foerster, Weakland… Ero riuscito a prenotare un albergo proprio a fianco alla sede della conferenza. Per accedervi mi bastava attraversare una piccola strada. Ma alcuni giorni prima ho voluto andare a visitare il “Mental Research Institute” a Palo Alto. Arrivato alla sede ho dovuto inventarmi una scusa per entrarvi ed allora cosa meglio che chiedere informazioni sulla conferenza. “Sono appena arrivato, non conosco il programma, dove si svolgerà…” La segretaria interloquisce con me per un po’, poi si accorge che sono italiano, allora per agevolarmi, mi dice che avrebbe chiamato una persona che conosceva bene la lingua italiana. Con mia grande sorpresa vedo arrivare il prof. Watzlawick, l’autore di Pragmatica della comunicazione umana[1] e di Change[2], forse il libro di psicologia più bello che io abbia mai letto, colui che con la frase “la psicoanalisi, una terapia senza fine e senza fini”[3] mi aveva definitivamente emancipato dall’ideologie psicoanalitiche e psichiatriche in generale. Ed allora abbiamo parlato un po’, mi ha illustrato brevemente gli argomenti, gli invitati, mi ha dato l’indirizzo della sede, si è preoccupato molto di come avrei potuto seguire la conferenza dato che il mio inglese era un po’ rudimentale. L’ho salutato e gli ho stretto la mano prima di andarmene. Mi ha colpito la sua semplicità e disponibilità e per contrappunto mi sono venute in mente tutte quelle volte in cui professori o primari mi avevano fatto fare anticamera prima di potergli parlare magari per un esame o per delle spiegazioni, anticamera a volte conclusasi con un “ci dispiace il professore è dovuto andare via”. Quanti cattedratici si sarebbero scomodati per dare informazioni ad uno sconosciuto appena arrivato? Questa semplicità da parte di una persona che per importanza è una figura del gotha della scienza, l’equivalente per la strategica di Freud per la psicoanalisi, mi ha colpito molto. In seguito non ho resistito a raccontare l’accaduto ad amici e colleghi presenti alla conferenza, i quali ogni volta che entrava nella sala, chiosavano: “Guarda c’è il tuo interprete personale!” Ma non fu l’unica lezione avuta sul piano umano. Un’altra volta in Italia ad Arezzo in una conferenza, in cui figurava come principale relatore, un collega psichiatra nell’intervallo gli aveva chiesto un autografo da vergare su uno dei suoi libri. Con disponibilità, mi ha raccontato il collega, aveva autografato il libro e con altrettanta ironia aveva accompagnato il gesto dicendogli: “Sa quanto varrà questo libro dopo la mia morte!”.

E, a proposito di ironia e soprattutto di umiltà, sempre nella conferenza di S. Francisco, ho avuto il tempo di conoscere Heinz von Foerster, “ingegnere di formazione, prestigiatore per diletto, appassionato studente di fisica e di matematica”[4], ha contribuito a sviluppare insieme a Norbert Wiener, John von Neumann la cibernetica, cioè la scienza della comunicazione all’interno dei sistemi, scienziato ed anche filosofo costruttivista, figura eminente. Si deve a lui il superamento nella scienza del concetto positivista di conoscenza oggettiva[5]. Tanto per dare l’idea del temperamento della persona, nel libro scritto con E. von Glasersfeld “Come ci si inventa”[6], ricorda di quando alla fine della seconda guerra mondiale girava per Vienna con una moto di piccola cilindrata (un Puch 125) per verificare tutti i punti della linea elettrica dove c’era ancora elettricità e segnalarli in modo da ridare la luce alla città. Alla conferenza è intervenuto in sedia a rotelle, con una gamba amputata per evidenti problemi legati all’età: aveva all’epoca oltre novant’anni. Eppure, sembrava non avere nulla da recriminare all’età ed alla malattia, divertito ed ironico, aveva due occhi azzurri che sprizzavano vitalità e curiosità, nel mentre si definiva “a Watzlawick invention” (un’invenzione di Watzlawick), intendendo l’opera di divulgazione delle sue teorie ad opera di Paul Watzlawick.

Ricordo l’orgoglio e l’onore di appartenere, seppur come ultimo arrivato, alla corrente di pensiero di queste due figure: potenti carismatiche e nello stesso tempo umili e disponibili; persone eminenti, ma mai arroganti. Quante volte dopo aver incontrato persone conosciute sui libri ero rimasto deluso dovendone rivedere al ribasso la considerazione. In questo caso, aver conosciuto dal vivo gli autori che mi avevano appassionato ha addirittura elevato la mia stima nei loro confronti.

Tuttora cerco di andare incontro al quotidiano lavoro clinico e di ricerca con lo stile serio, ma anche ironico e semplice, rigoroso e nello stesso tempo gioioso di questi due Maestri di Scienza, che si sono rivelati anche e soprattutto Maestri di Vita.


NOTE

[1] Watzlawick, P. Beavin, J.H., Jasckson, Don D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi , delle patologie e dei paradossi. Astrolabio, 1967, Roma

[2] Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi. Astrolabio, 1974, Roma

[3] G. Nardone, P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, 1990, Milano

[4] Lorenzo Dorelli, Introduzione all’edizione italiana di “Come ci si inventa”

[5] Ferster, H. von, Sistemi che osservano, Astrolabio, 1987, Roma

[6] Foerster, H. von, Glasersfeld, E. von, Come ci si inventa, Odradek, 2001, Roma

Integrated Diagnoses for an Integrated Treatment in a Suicide Attempt: A Case Report

Andrea Aguglia (1,2*),
Luca Proietti (1,2),
Andrea Vallarino (3) and
Mario Amore (1,2)
1 Psychiatric Clinic, IRCCS Ospedale Policlinico, San Martino, Genoa, Italy
2 Department of Neuroscience, Rehabilitation, Ophthalmology, Genetics, Maternal and Child Health, University of Genoa, Genoa, Italy
3 Faculty of Medicine, University of Genoa, Genoa, Italy
*Corresponding author: Andrea Aguglia

Introduction

In psychiatric ward and in emergency situations, it’s necessaryto assess a patient according to DSM diagnosis, subsequently, at the time of rehabilitation or at the person’s reintegration into family or into life environment, the concept of action research of Kurt Lewin is more useful. In the construction of physiological realities, the intervention diagnosis allows to get out of the DSM rigidity, preventing the patients to become chronic, avoiding inauspicious diagnostics labels or the so called labeling [1,2].
As Karl Klaus says, “diagnosis is one of the most common diseases”, especially in the field of psychiatry whereas overdiagnosis is prevalent.
An authoritative and above suspicion voice, as that of Allen Frances [3], reports the proofs of the diagnostic inflation, underlining the way some psychiatric disorders, such as the bipolar disorder, autism, attention deficit disorder, had a statistical increase up to forty times in the last fifteen years, a real epidemic, based on inflated data, like anxiety disorders
and depression, feeding, as a consequence, the pharmaceutical industries.

During rehabilitation and reintegration into society, it’s necessary to make a distinction between medical, psychiatric and psychological diagnoses. “A sound medical diagnosis describes and indicates the therapy. A bronchitis diagnosis is heralding of good news for the patient, because the bronchitis is curable: I describe your disease, which means I have understood, therefore I know how to cure you. But the diagnosis have also different effects from descriptions. In psychiatry the diagnosis doesn’t describe the disorder, but makes it up. It’s the labeling phenomena” [4]. One of the most flashing examples is explained by David L Rosenhan [5]. A group of eight fake-patients (psychologists and psychiatrists) who, for research purposes, decided to present themselves in different hospitals, showing psychiatric symptoms (they heard voices).

They were all admitted in psychiatric ward. Few days later, they were supposed to reveal themselves for whom they were, that is “healthy subjects”. Every time they were asked about their health, they exhibited their mental health, answering, as it actually was, that they were fine, that they did not hear voices, that they had no more any of the psychiatric symptoms, they were recovered for with the diagnosis of “schizophrenia”, nor they had any other symptoms. This was totally useless, because all of them were discharged after numerous days and weeks of hospitalization with the confirmed diagnosis of “schizophrenia”, although in remission. The only ones who noted the “faking” were the other patients, who individuated the “intruders” saying: “you’re not mad, you’re a professor; …you’re a journalist…, etc.’. A false label creates a true reality: the going on of the psychiatric recover, the chronic making.” Operative diagnosis is a strategic construct that overcomes the objective knowledge conception introduced by the Positivism. Operative diagnosis can be functional, complementary and coexist next to the DSM dictated descriptive diagnosis [6]. It is structured upon the concept of operative consciousness introduced in philosophy by Ernst von Glasersfeld: we can know reality only after having changed it. Diagnosis about the functioning of the disorder can be extrapolated only after having treated the person, which means after having introduced changes in the system that make us able to understand how the system works. With regard to this, we followed the teaching of H. von Foerster [7], who in “Observing Systems” established there was no discontinuity between observer and observed, for the observer was part of the observed system and a prior knowledge of the pathologic systems was not possible, if not only a posterior, after the intervention.
Using operative diagnosis allow to reach a better therapeutic effectiveness and research outcomes, since DSM diagnosis is inappropriated to define mental disorder [1-3,8].
The aim of this paper is to show the importance of using an opearative diagnosis to reach a complete remission and Restitutio Ad Integrum. DSM diagnosis and pharmacological treatment permit to gain a remission of acute symptoms and a initial recovery. An opearative diagnosis underlines the importance to consider also the familial and interpersonal context in which a patient lives. The intervention on this aspects is crucial to obtain the complete recovery.

Case Introduction

We report the case of a young Italian woman 24 year-old diagnosed with a Major Depressive Episode (MDE) and narcissistic personality disorder. The patient accepted voluntarily to participate in the study (case report) and provided her written informed consent for the publication.
She was admitted to the emergency department for a suicide attempt. She caused herself a vertical stab wound in the left forearm after taking half bottle of delorazepam’s drops. The interruption of a romantic relationship with her boyfriend could be considered the trigger. The patient was in the family house with her boyfriend, while he was sleeping and her parents were at work. Her father is a naval engineer and works in ship building and her mother is a state employee.

Presenting complaints

She reported an important anguish state, depression, emotional lability, reduced appetite and insomnia. No current psychotic symptoms (hallucinations or delusions) were present. The psychiatric visit, performed during the hospitalization, showed loneliness experiences, personal dissatisfaction and inner emptiness that she attributed to the difficult management of the future. She reported high academic and work expectations with subjective frustration feelings and depressive thinking due to difficulty to maintain attention and concentration to study. Furthermore, the patient affirmed having thoughts of teadium vitae, unspecific suicidal fantasies, not structured and not planned in an attempt.

History

The clinical history can be summarized as follows: she was born in Italy, attended the English school and then she went to Germany to study Medicine and Surgery. She was attending the fifth year of the course without any difficul to complete the exams until the year before the suicide attempt. She has just finished a psychodynamic psychotherapy lasted two years, she suffered of two mild-moderate MDE, one of which was treated with escitalopram 10 mg daily successfully, she was never hospitalized before. The clinical and psychiatric history was negative for a substance use disorder, bipolar disorder or other Axis I diagnosis.
Moreover, no other suicide attempts were found. No familiarity for psychiatric disorders.

Assessment

Several scale were administered Hamilton Depression Rating Scale, Hamilton Anxiety Rating Scale, Global Assessment Functioning, Beck Hopelessness Scale, Temperament Evaluation of Memphis, Pisa, Paris and San Diego-autoquestionnaire version (TEMPS-A) and Structured Clinical Interview for Axis II disorders.

Case conceptualization

Given the clinical presentation, we prescribed Olanzapine 10 mg and Delorazepam 2 mg to address theanguish state, the emotional lability and insomnia. Moreover Olanzapine was prescribed also for known anti-aggressive and anti-impulsive proprierties. One week later, clinician decided to prescribe also antidepressant medication, used for the previous depressive recurrences (Escitalopram 10 mg), to treat the associated depressive state without any side effects.

Course of treatment, assessment of progress
and complicating factors

After two weeks a good clinical response was obtained: depressive symptomatology was reduced, the anguish state and the anticonservative thoughts were well controlled, a better quality of sleep was obtained. The patient showed also a better insight of suicide attempt being aware of the reasons that led to hospitalizationHer dissatisfaction about the future willing and the high academic-work expectations remained. During the hospitalization we hypothize that relational conflicts with her parents can contribute to her symptomatology. Her dissatisfaction about the future willing and the high academic-work expectations affect her quality of life, predisposing to subsequent relapses but also limiting her in completing the universitary career.

Treating barriers to recovery

The patient was discharged after 20 days and she was recommended to a Brief Strategic psychotherapist [9], given also the relational conflicts with her parents. The psychotherapist supposed a hysterical situation with demonstrative suicide attempt. But the hypothesis was verified first, inviting the parents in therapy already during the hospitalization. The parents, caught by senses of guilt, reported that the girl had a progressive trend to working and studying autonomy, which they thought was excessively forced. It was like as the family axiom toward independence had been interpreted by the girl in an excessive sacrificing way. The family development model was a sacrificial pattern with an educative evolution to the duties, which must always surpass pleasures. Duty was the family leitmotif. The girl exceeded by herself in this pattern. The first intervention was freeing parents from guilt. The girl lived under pressure, therefore, the first step was to remove the pressure inside the family. Being in the grip of guilt, it was possible that the parents increased their attempted educative solutions, putting further pressure upon the girl. This has been important to prepare the homecoming of the young girl. At the moment of the return, the parents had the job to stop talking to the daughter about the problems she has had. In Brief Strategic Therapy, this is a prescription called “conspiracy of silence, observing the behavior without intervention” [10]. If the girl was to become immediately active, they had to observe the behavior without restricting it, if she allowed herself to relax, they had to take notice of that and then report it to the therapist. By doing so, the parents have been elevated to role of co-therapists. The intervention is thin, but fundamental, a small difference, that makes a large difference. From possible cause of problems, the parents have been redefined as a resource for the solution for the situation of the daughter. A radical change of perspective, that has helped the therapy. Subsequently, the girl was visited for some time and it was recommended to her to look around herself at 360°, looking to spot the pleasing things for her, going from the most unrefined to the more refined ones, and report them all to the  therapist. By doing this, we have reversed the family model from duty first and then pleasure to pleasure first and then duty. Given the ethical and religious severity of the family, we referred to S. Agustin, which goes “nobody can live on the earth without pleasure”.
After all this, the girl was followed in psychotherapy for a short time in Italy, gradually reducing the drugs until completely interrupting the pharmacology therapy, and then returned to live abroad, where she is completing university education.

Treatment implications of the case

This case report demonstrates how an adequate therapeutic strategy based on not only pharmacological and psychological treatment but also on rehabilitation need to several tools according to different hospital, rehabilitative, familial and individual phases.
Just like a capable surgeon knows how to use different tools according to the different phases of the therapeutic strategies, the same way in psychiatry and psychotherapy different points of view in different moments can be used. DSM diagnosis could not be appropriate to totally understand the clinical picture of a patient andto choose therapeutic options in post-acute phase.

Discussion and Conclusion

This case demonstrates how a good therapy and rehabilitation uses different tools according to different hospital, rehabilitative, family and individual phases. Just like a capable surgeon knows how to use different tools according to the different phases of
the operation, the same way in psychiatry and psychotherapy different points of view in different moments can be used, with different methodological bias to avoid [11].
It is necessary to use the psychiatric ideas not as walls to debate, but as different techniques that can communicate among them. DSM diagnosis can affect the therapeutic effectiveness and the research findings [1], we have to use other diagnostic constructs to understand the biological disfunction and psychological dynamics underlying a psychopathological syndrome.
In this case, psychiatric ward, public outpatients unit and private psychotherapists contributed to hit the person’s goals in a short time and with ecological instruments. We could affirm that in addition to communicating with patients, the professionals succeeded to communicate among them, putting in relation their different therapeutic knowledge.
This case, moreover, demonstrates how it is necessary to be capable of looking at the problems also from a direct and indirect systemic point of view. In this case especially, it has been important to involve the parents into the therapeutic strategy.
There is a frequent tendency to exaggerate in considering the patients as a Spinoza’s monad, isolated from all and everyone and even to be prone to exclude with blame from the therapy the patient’s relatives. From our point of view this is a mistake, because the parents could often represent an excellent resource for the patient’s recovery [12,13].
And never as in this moment the parents are facing difficulties in being guides for the children for cultural and social reasons, that we haven’t got time to analyze right now. Helping the parents to help the children becomes [14], in this historical period, an
additional fundamental work for the medical doctor.
To conclude, Hippocrates, on the other hand warned: “life is short, art is vast, opportunity transitory, experience fallacious, judgment difficult. Not only the medical doctor must do what is appropriate, but also the patient, those who assist him and all other people”.

References

1 Van Praag HM (2010) Biological psychiatry: still marching forward in a dead end. World Psychiatry 9: 164-165.
2 Pietrabissa G, Manzoni G, Gibson P, Boardman D, Gori A, et al. (2016) Brief strategic therapy for obsessive– compulsive disorder: a clinical and research protocol of a one-group observational study. BMJ Open 6: e009118.
3 Frances A (2013) Saving Normal: An Insider’s Revolt against Outof-Control Psychiatric Diagnosis, DSM-5, Big Pharma, and the Medicalization of Ordinary Life. Psychother Aust 19: 14.
4 Valiakas G, Vallarino A (2015) In principio era il medico di famiglia, lo specialista di medicina generale, in Milanese, Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola. Ponte alle Grazie. Milano.
5 Rosenham DL (1973) On Being Sane in Insane Places. Science 179: 250-258.
6 Nardone G, Salvini A (2013) Dizionario Internazionale di Psicoterapia. Garzanti. Milano
7 Foerster HV (1987) Sistemi che osservano. Astrolabio Roma 213.
8 Van Praagh HM (2010) No functional psychopharmacology without functional psychopathology. Acta Psychiatr Scand 122: 438–439.
9 Nardone G, Watzlawick P (2005) Brief Strategic Therapy. Jason Aronson Inc, United States.
10 Nardone G, Balbi E (2008) Solcare il mare all’insaputa del cielo. Ponte alle Grazie, Milano.
11 Ludici A, Faccio E, Castelnuovo G, Turchi GP (2019) The Methodological Bias That Can Reduce (or Affect) the Process of Diagnostic Construction in Clinical Settings. Front Psychol 10: 157.
12 Szapocznik J, Muir JA, Duff JH, Schwartz SJ, Brown CH (2015) Brief Strategic Family Therapy: Implementing evidence-based models in community settings. Psychother Res 25: 121–133.
13 Horigian VE, Anderson AR, Szapocznik J (2016) Taking Brief Strategic Family Therapy from Bench to Trench: Evidence Generation Across Translational Phases. Fam Process 55: 529-542.
14 Nardone G (2012) Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Ponte alle Grazie, Milano.

 

Case Report – iMedPub Journals www.imedpub.com
Clinical Psychiatry ISSN 2471-9854
2019 Vol.5 No.2:1
© Under License of Creative Commons Attribution 3.0 License |This article is available in: http://clinical-psychiatry.imedpub.com/archive.php

La Supervisione strategica nei contesti clinici

Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica

Da alcuni anni in Liguria, in via sperimentale, ho allargato la Supervisione, oltre agli Specialisti in Psicoterapia Breve Strategica ed agli Allievi della Scuola di Arezzo, anche ad altri professionisti sanitari: medici, pediatri, psichiatri, psicologi di altri indirizzi, infermieri; ovviamente con l’unica clausola di aderire ad un concetto di supervisione e formazione secondo il modello strategico. Ne è nato un lavoro di gruppo molto interessante, che si è anche rivelato un ottimo contesto di ricerca. Nel tempo si sono alternati nel gruppo Medici di Medicina Generale, parte dell’equipe del Sert della Asl 3 genovese, docenti della Facoltà di Medicina… Un crogiuolo di linguaggi differenti, dove il Neurologo parlava di recettori cerebrali, il Gastroenterologo di colon irritabile, il Terapeuta strategico di Sistema Percettivo Reattivo, il Responsabile del Sert di intossicazioni cerebrali. Laddove linguaggi differenti creano realtà differenti, è stato un modo per allargare le conoscenze ed i punti di vista. Da alcuni degli intervenuti c’è stato davvero da imparare. Ovviamente, a seconda di chi interveniva, noi strategici abbiamo saputo adottare la relazione più opportuna. E’ indubbio che al neurologo quando parla di neuroscienze si debba riconoscere una posizione dominante, quando il confronto era su temi di psicoterapia gli si chiedeva la disponibilità all’ascolto, talvolta si entrava anche in simmetria, confrontando pareri differenti. Non facile gestire un gruppo di questo tipo. Il supervisore deve fare da interprete, quando necessario, da moderatore, da attivatore se nasce un forzato conformismo. Saper anche tacere quando gli altri sanno le cose bene o meglio di te, senza personalismi. La one up position deve essere riservata al modello strategico, il supervisore diventa colui che nella varietà degli approcci, deve mantenere il rigore scientifico e la coerenza del modello evitando di cadere nell’eclettismo, che rappresenta la morte per “asfissia logica” della psicologia. Una buona scuola di elasticità mentale ed un buon modo per diffondere il virus strategico. Tra i frutti di questo lavoro una richiesta di partecipazione ad uno studio sperimentale da parte del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Genova ed una richiesta di collaborazione per un lavoro di gruppo sulla dieta paradossale con pazienti diabetici nel principale Ospedale Genovese. Anche collaborazioni e pubblicazioni sulla dietetica in ambito ostetrico e ginecologico.

In questo senso la supervisione è stata definita strategica a più livelli. Innanzitutto per l’applicazione alla soluzione dei vari casi clinici presentati dai partecipanti del problem solving strategico, con i suoi sette passi[1]:

1) la definizione del problema,
2) la definizione dell’obiettivo,
3) l’analisi delle tentate soluzioni, la ricerca di soluzioni alternative attraverso:
4) il come peggiorare,
5) lo scenario oltre il problema…,
6) la tecnica dello scalatore,
7) l’aggiustare progressivamente il tiro fino alla risoluzione del problema o al raggiungimento dell’obiettivo.

Strategica per aver divulgato il modello e permesso l’affermazione e la conoscenza dei nostri professionisti anche in ambito universitario ed ospedaliero, avvicinando la figura dello psicologo al medico.

Strategica, infine, perché sta permettendo di creare un gruppo di lavoro in ambito locale tra i professionisti liguri della strategica, che personalmente ritengo il vero valore aggiunto della supervisione, superando personalismi e garantendo una collaborazione competitiva tra di noi. Collaborazione a pari livello anche con i più ‘giovani’ per formazione; competizione nel volersi migliorare nel confronto con quelli più esperti tra di noi. Competizione che deve sempre rimanere sul livello dei contenuti, e non della relazione. Come bene descritto nella Pragmatica della comunicazione umana, una sana comunicazione deve prevedere che in primo piano stiano i contenuti e la relazione debba rimanere sullo sfondo; viceversa è patologica quella comunicazione che strumentalizza i contenuti per regolare i conti a livello relazionale[2]. In questo devo dare atto ai nostri colleghi medici di aver contribuito non poco alla creazione di un buon spirito di gruppo.

E quanto sia importante la comunicazione tra professionisti lo avevo già riscontrato da studente di Medicina quando andavo nei vari reparti ospedalieri per annusare l’aria e farmi un’idea di quello che avrei voluto fare da grande. In quei reparti dove c’era un buon clima tra colleghi, anche i pazienti si sentivano beneficiati, rispondendo meglio alle terapie; viceversa, se c’era un brutto clima, i pazienti ne venivano investiti negativamente anche sul piano prognostico. In un recente libro, Fabrizio Benedetti, neurofisiologo dell’Università di Torino, ha stabilito che le parole usano gli stessi recettori cerebrali dei farmaci. Ha concluso però che siccome l’umanità ha inventato prima i linguaggi degli psicofarmaci, sono i farmaci ad usare gli stessi recettori delle parole. Le buone parole influenzano la secrezione di neurotrasmettitori, favorendo anche da un punto di vista organico processi di guarigione[3]. Diventa quindi cruciale promuovere buone interazioni tra di noi professionisti ed una sana comunicazione che favorendo il buon spirito del terapeuta influenzi a cascata i processi di guarigione dei pazienti; soprattutto in questo momento storico dove si ha un incremento delle patologie più importanti come i disturbi di personalità e nella terapia è sempre più determinante la figura del terapeuta, con il suo equilibrio psicologico, rispetto alla tecnologia psicoterapeutica.

Gregory Bateson lamentava come nella relazione terapeutica, l’accento fosse posto esclusivamente sul paziente e che la psicologia si fosse poco occupata dell’altra sponda della relazione: il terapeuta. Per una volta, invece che occuparci solo dei pazienti, ci siamo occupati anche un po’ di noi in accordo con quanto afferma il Dott. Hunter Doherty ‘Patch’ Adams, … Per noi guarire non è solo prescrivere medicine e terapie, ma lavorare insieme condividendo tutto in uno spirito di gioia e cooperazione.“.

[1] Nardone, G., Problem Solving strategico da tasca, Ponte alle Grazie, Milano, 2009

[2] Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., Pragmatics of human communication: a study on interactional patterns, pathologies and paradoxes, W.W. Norton Co., New York, 1971 (tr. it., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1974

[3] Benedetti, F., La speranza è un farmaco, Mondadori, Milano, 2018

 

Alimentazione – La dieta paradossale

Fa che il cibo sia la tua medicina
e cha la medicina sia il tuo cibo.
Ippocrate

Per quanto riguarda la terapia dei disturbi alimentari, in terapia breve strategica evoluta, la dieta ritenuta migliore è quella che definiamo “Dieta Paradossale”. Consiste nel prescrivere al paziente di selezionare i cibi da lui ritenuti più buoni e di mangiare solo quelli con l’unica limitazione di assumerli solamente tra volte al giorno a colazione, pranzo e cena: i tradizionali 3 pasti canonici. Questo perché è sotto gli occhi di tutti che le diete restrittive fanno ingrassare. A questa conclusione è arrivata anche l’American Psychiatric Association, che nel constatare come tutti gli americani obesi fossero a dieta ha concluso che è la dieta che li fa ingrassare. Come si spiega? Tutte le diete restrittive fanno perdere peso ovviamente; il problema quale è? Che una volta che si passa al mantenimento si prendono tutti i chili persi con gli interessi. E’ la dichiarazione di tutti quelli che hanno fatto una dieta o più di una dieta. Oltretutto il controllo fa perdere il controllo per cui le persone sovrappeso, restringono ai pasti e sgarrano fuori pasto. Con un errore di interpunzione,pensano: “siccome che ho mangiato fuori pasto, restringo ai pasti”. Così senza rendersene conto stanno preparando la successiva abbuffata fuori pasto, magari nella notte o a metà mattinata o nel pomeriggio. Se facciamo l’interpunzione corretta, più opportunamente possiamo dire che siccome il magro si permette la quantità e la qualità ai pasti, può avere il controllo dell’alimentazione fuori dai pasti, mentre il “ciccione” controllando in maniera rigida i pasti perde il controllo fuori pasto. Se me lo concedo posso rinunciarvi se non me lo concedo sarà irrinunciabile. Se mi concedo il piacere del cibo posso rinunciare a quel piacere, se non me lo concedo ne perderò il controllo. La stessa quantità di cibo mangiata solo ai pasti fa dimagrire, mangiata fuori pasto fa ingrassare. E’ sotto gli occhi di tutti, basta andare in una qualunque mensa o self service: i magri mangiano moltissimo ai pasti e felicemente, mentre i grassi tristemente restringono. Come è possibile questo? Il nostro intestino è un organo intelligente; se gli diamo la regolarità fa il conteggio preciso delle molecole che gli servono per mantenerci in vita, eliminando quelle in eccesso, se non gli diamo regolarità perde il conto. Ma non solo, se i cibi sono di nostro gradimento il nostro cervello, sede della nostra mente, reagirà al piacere secernendo neurotrasmettitori, e segnatamente endorfine, che attraverso l’asse neuro-ormonale ipotalamo-ipofisi-tiroide attiverà il metabolismo, accelerandolo attraverso il sistema enzimatico e attivando la digestione e la dismissione delle molecole in eccesso; al contrario se non sarà piacevolmente stimolato farà esattamente il contrario, rallentando tutti i processi metabolici e favorendo l’accumulo di molecole e quindi di grasso dove meno lo desideriamo: i fianchi.

Il Nostro Cervello

C’è un altro meccanismo di cui dobbiamo tenere conto. La nostra società si è molto evoluta, particolarmente negli ultimi secoli, dalla Rivoluzione Industriale in poi. Vi è cibo dappertutto nella società occidentale, grazie a questa evoluzione. Ma il nostro cervello non ha seguito la rapidità dell’evoluzione. Le evoluzioni biologiche sono molto lente, richiedono migliaia, milioni di anni. Il nostro cervello è ancora quello dei nostri progenitori della preistoria. Quando vivevano nelle caverne, i nostri avi tutte le mattine dovevano uscire dalle caverne e cominciare a correre. E’ il motivo per cui abbiamo lunghe gambe, siamo fatti per correre; e per correre alla ricerca di cibo. Quando lo trovavano in grande quantità, ne mangiavano copiosamente e così, attraverso le molecole ingerite, mandavano il segnale ai centri di regolazione del metabolismo che risiedono nel nostro cervello, nella parte inferiore del nostro cervello chiamata ipotalamo, che vi era cibo in quantità. Il segnale veniva codificato, come tutt’ora avviene, come un segnale di abbondanza che faceva attivare il metabolismo in senso espulsivo. Si eliminavano tutte le molecole in eccesso. Se viceversa non trovavano cibo in abbondanza, ma poche bacche, mangiavano quel poco e le scarse molecole arrivate all’ipotalamo davano un segnale di carestia. Il cervello automaticamente reagiva e tutt’ora reagisce alla carestia, accumulando cibo nei fianchi. Come dire: “siccome devo mantenerti in vita e attraverso il cibo fornire l’energia agli organi vitali che ti tengono in vita, cioè cuore e polmoni, non utilizzo e non elimino il poco cibo, ma lo accumulo, perché se anche nei prossimi giorni non ne troviamo, potrò utilizzare le riserve.”. L’obiettivo prioritario era tenersi in vita, garantendo la sopravvivenza della specie. Quando noi restringiamo ai pasti, il cervello avverte attraverso la chimica delle molecole una situazione simile alla carestia della preistoria e reagisce accumulando cibo nei fianchi perché ritiene a rischio la sopravvivenza dell’organismo. Il cervello umano nel metabolismo non vede attraverso gli occhi gli innumerevoli supermercati di cui siamo circondati, ma decodifica attraverso le molecole, “vede” attraverso la chimica. In situazione di carestia oltretutto è disposto a sacrificare gli organi meno importanti nell’immediato per la sopravvivenza, come i muscoli, a favore degli organi più importanti nel breve per la sopravvivenza, il cuore ed i polmoni, per cui quando siamo a dieta perdiamo peso soprattutto attraverso la massa muscolare e quando passiamo al mantenimento aumentiamo la massa grassa che è esattamente il contrario di quello che vorrebbe la persona a dieta.

La Caloria

Per dare l’idea di come siano antiquate e controproducenti le comuni nozioni sull’alimentazione facciamo alcune considerazioni sull’unità di misura degli alimenti che è la caloria. E’ un sistema di misurazione obsoleto risalente all’ottocento. A quando cioè si sono cominciati ad usare nella società industriale, nelle fabbriche e nella locomozione i carburanti, cioè gli idrocarburi. Per quantificare il loro rendimento si bruciavano e si vedeva quante calorie, cioè quanto calore producevano. Si bruciava un litro di benzina e si contavano le calorie prodotte. Il concetto è stato trasferito al cibo. Si brucia un etto di pasta e si vede quante calorie produce. Si vede già da qui che il metodo non calza ed è inadeguato. Perché noi non viviamo di calore, ma di molecole. E’ possibile che un cibo produca molte calorie, ma non abbia tante molecole, mentre un cibo con poche calorie possa essere pericoloso perché fa introdurre un eccesso di molecole. L’unità di misura non è la caloria, ma la quantità e la qualità delle molecole ingerite.

Quando chiedere aiuto al medico o allo specialista

Tutti i disordini alimentari iniziano con la difficoltà a mantenere una condotta alimentare regolare, restringendo troppo ai pasti o mangiando fuori pasto e, almeno all’inizio, con intenzioni virtuose. Ma la mente diventa quello che fa, per cui le soluzioni disfunzionali nell’arco di poco tempo, anche solo tre mesi, possono creare una rigidità nella percezione della realtà tale da strutturare una sintomatologia, che in modo automatico, anche al di fuori della volontà e della razionalità della persona, si autoalimenta. Per cui riduzione dell’alimentazione, digiuni o abbuffate diventano irrefrenabili. Quello è il momento in cui il soggetto crea una trappola mentale da cui non può più uscire da solo e occorre che qualcuno da fuori gli indichi la via d’uscita. E’ il senso della psicoterapia breve strategica: evitare di analizzare il perché una persona si è intrappolata, ma insegnare ad uscirne velocemente. Anche perché non vi è molto tempo da perdere, specialmente in alcuni problemi come l’anoressia, dove vi è il rischio di vita, ed anche nel vomiting dove la perdita di potassio può creare problemi cardiaci seri, fino all’infarto del miocardio.

Nell’anoressia, la riduzione dell’alimentazione crea un’alterazione degli occhi che diventano delle lenti di ingrandimento, più la persona perde peso, più si vede grassa, superando l’oggettività data dalla bilancia ed inducendo ulteriori riduzioni dell’alimentazione. In questo c’è anche una spiegazione che viene dalle neuroscienze. La cellula nervosa sottoposta ad iponutrizione, tende ad amplificare i segnali ingrandendo le immagini.

Nella bulimia, il controllo sempre più rigido dell’alimentazione ai pasti, crea abbuffate irrefrenabili fuori pasto. L’abbuffata comporta mangiare tutto quello che capita a tiro, anche alimenti ancora surgelati o non cotti. L’abbuffata irrefrenabile avviene anche nel binge eating. La differenza consiste nel fatto che nella bulimia, la persona alterna restrizioni ed abbuffate irrefrenabili ed è sovrappeso, nel binge eating, l’alternanza è fra digiuni ed abbuffate e la persona è sottopeso.

Discorso a parte merita il vomiting, che è un’evoluzione dell’anoressia. La trappola scatta quando la persona scopre che vi è un sistema evoluto per perdere peso e mantenere il piacere del cibo, basta vomitarlo, per cui all’inizio vomita per poter poi mangiare. Peccato, però, che anche la cosa più ripugnante ripetuta nel tempo diventa piacevole, per cui il processo si inverte e scatta una trappola particolarmente resistente al cambiamento: la persona mangia per poi vomitare. L’intera sequenza dell’immaginare il cibo, fare l’abbuffata e immediatamente dopo vomitarla diventa una sequenza che evoca il piacere erotico. In questo caso la patomorfosi, il processo di sviluppo della malattia, supera la sapienza degli psichiatri. Infatti raramente il vomiting è descritto in questo modo nei manuali di psichiatria e non compare in questi termini nel DSM. Siamo abituati a combattere con problemi che evocano la paura, la rabbia, il dolore. Questo problema costruisce piacere e nella terapia occorre superare resistenze al cambiamento superiori rispetto a tutti gli altri problemi. Nessuno è motivato a cambiare una situazione che gli da piacere. Ma occorre farlo perché è un piacere pervertito che annulla tutti gli altri piaceri: sentimentali ed erotici innanzitutto; e perché sul medio e lungo periodo mette a rischio la funzionalità cardiaca, epatica, renale e crea deformità ossee, oltre a problemi odontoiatrici, esofagei e gastrici. Queste persone, infatti, arrivano, in casi estremi, anche a mangiare e vomitare quindici o venti volte al giorno.

In sintesi, nell’ambito della regolazione dell’alimentazione si propone di scegliere i cibi più buoni per la persona, e non per il dietologo o il nutrizionista  o per l’ultima dieta proposta dal settimanale femminile illustrato, e mangiarli a colazione, pranzo e cena. L’obiezione più frequente alla dieta paradossale è: “ E se io mangiassi pane e nutella tre volte al giorno, come si fa a perdere peso o a regolare l’alimentazione?”. Anche in questo caso vale la logica paradossale. Se una persona mangia lo stesso cibo per una settimana o anche più,  alla fine si satura e rinuncerà spontaneamente a quel cibo, non per costrizione, ma per saturazione, passando in seguito a cibi più consoni ad una alimentazione virtuosa. Le migliaia di casi così trattati con successo nell’ambito dei disturbi alimentari prevalenti (anoressia, bulimia, vomiting, binge eating) testimoniano della validità della dieta qui proposta.

Testi di riferimento

AA VV, Dieta o non dieta, Ponte alle Grazie, Milano;
Nardone, la Dieta paradossale, Ponte alle Grazie, Milano;
Ongaro, Mangia che ti passa, Pickwick

Mutismo Selettivo

Non c’è dubbio che nessun poeta potrà dire di te (che vivi in famiglia) ciò che il poeta dice dell’astuto Ulisse, ossia che vide città popolose e imparò a conoscere i costumi di quelle genti, ma è lecito chiedersi se, rimanendo a casa con Penelope, egli  non avrebbe acquistato conoscenza di altrettanto grandi e piacevoli cose. (Soren Kierkegaard)

Uno dei momenti più critici dello sviluppo evolutivo di un bambino è il passaggio dalla famiglia alla scuola materna ed alla scuola elementare. E’ un passaggio critico perché si passa da ambienti molto protetti in cui non viene chiesta alcuna prestazione: il bambino vale per quello che è al di là di quello che fa; ad un contesto in cui si comincia ad essere valutati anche per quello che si fa. Nonostante tutti i tentativi di allentare la tensione sul rendimento nella scuola materna ed elementare, nella percezione di tutti: bambini, insegnanti, genitori, nonni, questo momento di passaggio è vissuto con qualche normale ansietà. E’ il primo momento di socializzazione in ambienti dove scattano spontaneamente anche meccanismi di competizione e dove soprattutto il bambino è chiamato ad esporsi.

Di fronte a questa ansia da prestazione, tante possono essere le difficoltà da superare: dalle problematiche dell’apprendimento, alla socializzazione, al rapporto con gli adulti e con il gruppo dei pari. Normali difficoltà che possono trasformarsi in problemi, se affrontate in modo inadeguato. Ed in genere, l’adulto di fronte all’ansia del piccolo reagisce basandosi sulle proprie capacità razionali, molto spesso dimenticandosi di quando lui stesso era bambino. Ad esempio, si può avere la tentazione di:

minimizzare:
“sono cose che sono successe anche  me, mai io poi ho reagito”;
razionalizzare:
“quando ti interroga la maestra tu stai calmo”, facendo scattare un meccanismo paradossale, per cui più si parla con il bambino incitandolo alla calma, più si creerà blocco emotivo;
o peggio ancora “intanto stai a casa, poi quando ti passerà tornerai a scuola”, facendo scattare la tentata soluzione dell’evitamento scolastico;
o di etichettare, magari attraverso certificati medici prodotti da specialisti o attraverso terapie dirette sul bambino (A. Vallarino et altri, 2012).

Tra le problematiche rilevate in questo fase dello sviluppo evolutivo, che comporta l’ingresso in contesti sociali più ampi, si possono verificare disturbi dell’apprendimento e del comportamento scolastico (ad esempio il disturbo dell’attenzione con iperattività), disturbi di relazione con l’adulto o l’insegnante (come il disturbo oppositivo/provocativo), disturbi di evitamento del contesto scolastico, presunte fobie o anche disturbi di rilevanza clinica (Fiorenza, Nardone, 1995).

Riporto qui un caso di soluzione in tempi rapidi di un caso di mutismo selettivo, dove le soluzioni adottate, che si sono dimostrate efficaci, hanno innanzitutto evitato di etichettare in senso clinico una bambina, lavorando in modo indiretto e con logiche non ordinarie attraverso la famiglia e la scuola.

Doppio intervento indiretto su un caso di mutismo selettivo

Viene da me una mamma disperata, perché la sua bambina che frequenta ormai la quarta elementare, da diversi anni non parla negli ambienti extra famigliari e cioè ad esempio quando esce e va nei negozi, o con persone che non appartengono alla famiglia, parla soltanto in casa con la mamma, il papà ed il fratello. Il mutismo è esteso agli ambienti scolastici a partire già dalla scuola materna e vieppiù ora nella scuola elementare.

Di fronte a questo problema, i tentativi di soluzione dei genitori sono stati: spronarla a parlare,  tranquillizzarla rispetto allo stress della scuola, intervenire a livello dei contenuti scolastici, facendole ripetere la lezione più volte a casa; ma niente, la bambina continuava  a restare muta negli ambienti extra famigliari. A questi tentativi disperati e senza esito dei genitori, si sommavano nell’ambito scolastico i tentativi degli insegnanti: “su, parla, non hai alcun problema, perché non farlo, sei come tutti gli altri, ti interroghiamo e ti chiediamo quello che vuoi”; cioè in sintesi cercavano di incitarla a parlare e di fronte al fallimento dei tentativi, hanno poi cercato di facilitare le interrogazioni, ma senza alcun risultato. Alla fine si sono arresi ed hanno proceduto con interrogazioni scritte. Quasi quattro anni di fila così, oltre agli anni della scuola materna, senza che la bambina parlasse con gli insegnanti. Parlava, ma solo con gli altri bambini, quando gli insegnanti non potevano sentirla. Oltre a questo si sono susseguiti tentativi di psicoterapia diretta sulla bambina ed interventi sistemici su tutta la famiglia, senza alcun esito.

Il quadro soddisfaceva in pieno i criteri diagnostici del mutismo selettivo indicati dal DSM. Infatti, secondo il DSM-IV, i criteri diagnostici per individuare un bambino selettivamente muto sono i seguenti:

  1. Il bambino non parla in determinati luoghi, come la scuola o altre situazioni sociali.
  2. Ma, il bambino parla normalmente nelle situazioni in cui si trova a suo agio, come nella propria casa. (Sebbene alcuni bambini possano essere muti in casa)
  3. L’incapacità del bambino di parlare interferisce con la sua capacità di “funzionare” nel contesto scolastico e/o nelle situazioni sociali.
  4. Il mutismo dura da almeno un mese.
  5. Non sono presenti disturbi della comunicazione (come la balbuzie) e altri disturbi mentali (come autismo, schizofrenia, ritardo mentale).

Si è proceduto rilevando le T. S. soluzioni disfunzionali degli adulti, che erano:

  • continui inviti a parlare
  • cercare argomenti di conversazione che potessero essere di interesse della bambina

La soluzione si è trovata rovesciando il quadro relazionale, secondo i dettami della tecnica della frustrazione del sintomo (Fiorenza, Nardone, 1995) e cioè:

alla mamma è stato prescritto, quando entrava ad esempio nei negozi, gelaterie o ristoranti, dapprima di chiedere alla bambina cosa volesse e, se non rispondeva, di commettere deliberatamente errori: se sapeva che le piaceva il gelato alla crema di ordinarglielo volutamente di un altro gusto, se al ristorante non chiedeva i piatti che voleva, di ordinare volutamente cose che non piacevano alla bimba. Analogamente se veniva qualche estraneo in casa, di intavolare discorsi noiosi da adulti, senza mai interpellarla. Nel caso la bimba avesse  chiesto di parlare, di invitarla cortesemente a non interrompere gli adulti.

In capo ad un mese, la bambina aveva cominciato a parlare in quasi tutti gli ambienti extrafamigliari. A partire da un episodio in gelateria dove si era ribellata all’ennesimo gelato ordinato dalla mamma non di suo gradimento. “No, io voglio il gelato alla crema e non al pistacchio”- Il primo segnale di sblocco di fronte ad un estraneo: la commessa della gelateria. In casa di fronte alla vicina di casa con la quale non aveva mai parlato, ha protestato che i discorsi erano troppo noiosi e che voleva intervenire anche lei.

Rimaneva, però, la scuola, dove la bambina continuava a rimanere muta, percependola come il contesto sociale più espositivo.

Allora, sempre in modo indiretto, dopo alcune riunioni con gli insegnanti, si è proceduto attraverso uno stratagemma basato su un doppio legame. Il doppio legame è una comunicazione particolare che poggia su una contraddizione. Prima si afferma una verità e subito dopo si nega quella affermazione. Prima si afferma il vero e poi il falso ma in tempi diversi.

Di fronte al doppio legame contraddittorio della bambina: sarebbe giusto che io parlassi, ma non riesco a farlo con voi, il cambiamento è stato ottenuto portando ad esasperazione la contraddizione (G. Nardone, 2008), proponendo un doppio legame terapeutico: “noi non vogliamo parlare con te, ma ora parleremo con te. Come? Attraverso i suoi compagni. Si è cominciato ad interrogarla con l’ausilio di un compagno di classe, rivolgendo le domande a lui, che avrebbe dovuto ripeterle alla bimba, la quale a sua volta doveva rispondere rivolgendosi al compagno che poi avrebbe ripetuto la risposta alla maestra. Ad esempio: “Quando Colombo ha scoperto l’America?”. Ed il compagno rivolto alla ragazza che ovviamente aveva ben sentito la domanda. “Quando Colombo ha scoperto l’America?”. Lei rivolta al compagno: “nel 1492”, ed il compagno alla maestra: “ha detto nel 1492”. Dopo un paio di settimane di questo nuovo “gioco” comunicativo, la bambina ha cominciato a parlare con le maestre direttamente, saltando l’intermediazione dei compagni.

Sono state fatte varie riunioni di verifica a distanza di tempo sia con le maestre che con la mamma, in cui è risultato che i bambini, con molta simpatia,  riportavano alle loro mamme che la compagna aveva davvero una bella voce e le maestre verificavano come ormai fosse davvero difficile farla tacere. La bimba aveva non solo ritrovato la parola con gli adulti in classe, ma aveva anche trovato gusto a parlare, tanto che risultava adesso difficile riportarla all’ordine, difficoltà mai così ben accolta dalle maestre ed anche, se si può dire, dal terapeuta scrivente. Ovviamente in tutto questo lavoro, la bimba non ha mai conosciuto il terapeuta, né mai ha avuto sentore di un intervento indiretto sulle maestre e sui famigliari.

BIBLIOGRAFIA
  • Fiorenza, G. Nardone, L’intervento strategico nei contesti educativi, Giuffrè, Milano, 1995
  • Kierkegaard, Sul matrimonio, pillole BUR, Milano, 2006
  • Nardone, E. Balbi, “Solcare il mare all’insaputa dl cielo”, Ponte alle Grazie, Milano, 2008
  • Vallarino et altri, in Nardone e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica, Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Ponte alle Grazie, Milano, 2012