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La diagnosi differenziale nelle Sindromi da attacchi di panico

di Raffaele Avico e Andrea Vallarino

La sindrome da attacchi di panico rappresenta la via finale di diverse condizioni patologiche. Le fobie, i disturbi ossessivi, i disturbi ossessivi compulsivi, le paranoie, ma anche i disturbi alimentari come il vomiting molto spesso hanno, come sintomatologia principale o di accompagnamento o come evento finale del percorso patogeno, l’attacco di panico. Questo pone quindi molti problemi di diagnosi differenziale, complicati anche dal fatto che, nel gergo comune, l’attacco di panico ha preso il posto del cosiddetto esaurimento nervoso ed anche della depressione. I pazienti, anni fa, si presentavano dicendo che soffrivano da tempo di un “po’ di esaurimento nervoso”, o più recentemente si presentavano parlando di depressione, ora l’attacco di panico è il modo prevalente da parte dei pazienti di presentare i propri disagi.

Occorre quindi fare molta attenzione a discriminare i segnali di patologia dei pazienti, anche perché la logica dei vari disturbi che possono presentare panico è molto differente da problema e problema; e la logica della patologia è quella che deve guidare la logica della terapia.

Per fare questo in terapia strategica diventa fondamentale individuare il Sistema Percettivo Reattivo della persona da cui parte la patologia.

Il sistema percettivo reattivo è appunto un sistema ridondante di relazione tra la sensazione di base della persona e le soluzioni per gestirla. Nel caso ad esempio del panico tra la sensazione della paura e le soluzioni di gestione della paura che sono il controllo che fa perdere il controllo, creando un circolo vizioso tra la paura, il controllo che ne fa perdere il controllo, creando ancora più paura che verrà ancora di più controllata in modo rigido, creando ancora più paura fuori controllo, con reazioni contraddistinte da sudorazione fredda, tremore alle gambe, tachicardia, dispnea, senso di depersonalizzazione.

Di fronte ad un attacco di panico sperimentato dalla persona una prima volta, ci può essere la tentata soluzione dell’evitamento costante delle situazioni in cui si potrebbe ricreare il panico. La tentata soluzione prevalente diventa l’evitamento oppure l’affrontare la situazione con l’aiuto di un “angelo custode”: la moglie, il fidanzato, una figura costante di riferimento. Evitamento e richiesta di aiuti diventano le tentate soluzioni che configurano la patologia come una fobia pura. Molto spesso in queste persone l’attacco di panico resta uno solo, il primo ed unico. Con le tentate soluzioni dell’evitamento e dell’aiuto non sperimentano altri attacchi, ma costruiscono una vita sempre più ritirata e bloccata. Queste situazioni di fobia pura sono ormai delle rarità, in quanto la società e la patomorfosi delle sindromi psichiatriche è andata e va sempre più verso la soluzione del controllo.

Per cui la reazione verso il primo attacco di panico diventa il controllo delle reazioni del panico. La persona non è tanto spaventato dalla paura di una situazione ma si spaventa per le sue reazioni. La tachicardia, la dispnea, il tremore alle gambe, la sudorazione fredda diventano oggetto di controllo rigido talvolta in via preventiva, scatenando quello che definiamo il controllo che fa perdere il controllo. Controllando il cuore, la respirazione, la sudorazione ottengono in modo paradossale di alterare queste fondamentali reazioni altrimenti fisiologiche. Come dire che l’attacco di panico se lo portano da casa e lo mettono paradossalmente nelle situazioni percepite come paurose. Il controllo paradossalmente produce la perdita di controllo. In questo caso si produce un patologia che definiamo fobico ossessiva, laddove all’evitamento descritto prima si aggiunge il controllo oppure anche ossessivo fobica laddove il controllo reiterato nel tempo conduce ad un successivo incremento delle perdite di controllo tale per cui la persona in seguito arriverà ad evitare le situazioni percepite come pericolose.

Queste due situazioni sono le classiche situazione che descrivono la sindrome da attacco di panico, che però interviene anche in altre sindromi governate dal altri sistemi percettivi reattivi.

È il caso dei disturbi ossessivi compulsivi che si caratterizzano per la presenza di rituali compulsivi. Pensiamo ai rituali di pulizia o a quelli scaramantici propiziatori o preventivi o di controllo come quelli di ripetere costantemente azioni per verificare di averle fatte bene. Il controllo dei rubinetti del gas per controllare che siano bene chiusi, la chiusura di porte e finestre ripetute ossessivamente che precludono una normale esistenza per le continue perdite di tempo causate dall’invasività dei rituali. Molto spesso, al termine di un esaurimento psicofisico legato al logorio causato dalle ritualità, può comparire l’attacco di panico. In questo caso il lavoro va fatto sui rituali e sulla credenza che sostiene i rituali. L’attacco di panico viene risolto in maniera indiretta.

Similmente occorre lavorare se il panico è legato ad una paranoia. La paranoia, come la compulsione è legata ad un controllo, ma non è il controllo che fa perdere il controllo del classico attacco di panico, un controllo che fa ottenere qualcosa di meno. È il controllo dell’incontrollabile che crea un qualcosa di più, il nemico. Si pensi alla paranoia di gelosia in cui il marito, contrariamente alla realtà, è convinto che la moglie lo tradisca. Comincerà a cercare i segni del tradimento e li troverà anche in dettagli di nessuna importanza, comincerà a chiedere conto alla moglie dei movimenti e delle azioni producendo nella moglie l’idea di dover nascondere al marito anche le più innocenti azioni, confermando al marito che la moglie è reticente e che quindi gli sta nascondendo qualcosa. Il controllo dell’incontrollabile. Nessuna persona altra da noi è controllabile al cento per cento, per cui qualunque controllo produrrà un qualcosa di inaspettato: un  nemico. Il controllo produce qualcosa in più: la credenza di avere un nemico, un nemico a sua insaputa, che non vuole essere nemico, ma che noi consideriamo tale, una costruzione paranoica che creerà paura e panico, ma con una logica di credenza, diversa dalla logica dell’evitamento fobico e dal controllo ossessivo che fa perdere il controllo.

Queste distinzioni, che appaiono sottili, sono importanti perché guidano in modo chirurgico la terapia seguendo logiche differenti.

Nel caso degli evitamenti fobici occorrerà bloccare la tentata soluzione dell’evitamento attraverso ristrutturazioni che creeranno percezioni differenti che a cascata creeranno azioni differenti. Si dovrà mettere la paura dell’evitamento al posto della paura della situazione.

Nel caso del controllo del reazioni della paura che paradossalmente creano il panico si dovrà usare un contro paradosso.

Nel caso dei rituali ossessivi compulsivi o della paranoia si dovrà con gradualità rompere la credenza del controllo perfetto o del nemico da combattere.

Nel caso dei disordini alimentari, in particolare il vomiting sia compulsivo che isterico, oltre alle tentate soluzioni cambia anche la sensazione di base che non è più la paura, ma il piacere e si dovrà lavorare per costruire piaceri normali al posto di piaceri perversi come appunto il mangiare per poi vomitare.


 L’articolo è tratto dal blog www.ilfogliopsichiatrico.it. del 21 marzo 2022
Il Corpo, il Panico e una corretta diganoxi differenziale:
Intervista ad Andrea Vallarino

Sul blog, è presente anche la registrazione dell’intervista della durata di 30 minuti

Il disturbo borderline di personalità in cinque parole

Sintesi della video intervista ad Andrea Vallarino sul canale youtube del Centro di Terapia Strategica di Arezzo

Il disturbo borderline di personalità è un disturbo molto importante, è il secondo capitolo della psichiatria in ordine di gravità ed è difficile da illustrare da un punto di vista didattico. Per facilitarmi il compito ho scelto cinque parole chiave del disturbo:

Borderline, Sistema-Percettivo-Reattivo, Carisma, Imperturbabilità, Direttività

Borderline
ovvero sintomi nevrotici in personalità psicotiche

La parola ci deriva dalla psicoanalisi. Gli psicoanalisti hanno diviso i problemi della psichiatria in due grandi capitoli: le nevrosi e le psicosi. Le nevrosi sono quei disturbi in cui compaiono sintomi come fobie, ossessioni, compulsioni, disturbi del comportamento alimentare, disturbi che si pensa possano essere curati con la psicoterapia psicoanalitica e le psicosi che sono disturbi maggiori che non sono curabili in analisi anche perché l’analisi potrebbe ulteriormente scompensare la persona. Sulla linea di confine di questi due grandi gruppi nosografici stanno i disturbi borderline, che hanno la caratteristica di presentare sintomi nevrotici in personalità psicotiche, sintomi di paura fobica, ossessiva, compulsiva, etc in personalità che presentano caratteristiche simili alla schizofrenia.

Sistema-Percettivo- Reattivo
ovvero la mente automatica

Noi strategici facciamo la distinzione fra disturbi minori (minori da un punto di vista nosografico, non certo per la sofferenza che creano che è in ogni caso molto grande), come le fobie, i disturbi ossessivi, le paranoie, i disordini alimentari, … ed i disturbi maggiori come le psicosi. Ebbene i disturbi minori sono quelli in cui in ogni caso c’è un Sistema-Percettivo-Reattivo stabile, sul quale la psicoterapia interviene solo quando si irrigidisce e compaiono sintomi, per introdurre elasticità nella rigidità. I disturbi di personalità sono disturbi in cui il SPR non esiste, perché nell’evoluzione della personalità non ha avuto modo di costruirsi. Qui la psicoterapia interviene per costruire da zero il SPR.

Per spiegare cosa sia il SPR occorre ricorrere ad un’immagine di un sistema in equilibrio. Prendiamo l’esempio di una stanza riscaldata da un sistema composto da un termostato ed una caldaia. Il termostato regola la temperatura ad esempio sui venti gradi e comunica alla caldaia di riscaldare fino a raggiungimento della temperatura voluta. Quando fuori nevica e si abbassa la temperatura il termostato comunica alla caldaia di scaldare di più per mantenere il giusto tepore. Se fuori c’è il

sole la caldaia, obbedendo alla comunicazione, si raffredda per evitare di andare oltre i gradi desiderati. Questo è un sistema percettivo e reattivo in equilibrio. La comunicazione all’interno del sistema, che sia quello descritto, che sia un sistema mentale è stata studiata da una scienza che si chiama cibernetica, nome che deriva dal greco κυβερνήτης, che vuole dire pilota di navi. Ciascuno di noi ha quindi dentro di sé una sorta di pilota automatico che gli consente di mantenere la rotta. Ebbene nel borderline questo sistema percettivo reattivo “ciberneticamente” stabile non esiste, tanto che la persona è totalmente instabile. E’ come se la caldaia, arrivata a venti gradi, si accendesse ancora di più per andare a trenta, poi scendesse a cinque, la temperatura giusta non c’è mai. Quando anche per caso arrivasse alla temperatura gradevole, subito la cambierebbe andando di nuovo agli estremi della scala del termometro.

I borderline sono sempre instabili e se per caso arrivano a qualcosa di funzionale, ad esempio ad avere un successo nella vita, subito lo distruggono, perché per loro è soprattutto difficile mantenere le cose in equilibrio, anche e soprattutto quelle che funzionano, preferendo distruggerle che mantenerle. Sono navi senza pilota che non sanno mantenere la rotta.

Quale è la differenza dell’intervento sui disturbi minori e sul disturbo di personalità? Nei disturbi minori si deve sbloccare un SPR irrigidito, nel borderline bisogna costruire da zero il Sistema Percettivo Reattivo.

Carisma
ovvero la capacità di trasmettere la grazia di Dio attraverso di sé

Gregory Bateson lamentava il fatto che la psicologia si fosse sempre occupata dei pazienti e molto poco dei terapeuti. Qui colmiamo in parte questa lacuna perché questa e le prossime due parole riguardano le caratteristiche che deve avere il terapeuta che si occupa di borderline. Innanzitutto deve essere carismatico. Carisma deriva dalla parola greca χάρις, che vuole dire grazia e nel mondo religioso, la grazia superiore, la grazia di Dio. Carismatico è colui che trasmette la Grazia di Dio attraverso di sé. Se devo costruire un Sistema Percettivo Reattivo da zero, devo essere colui che fa apprendere e poi acquisire la capacità di essere sistematico e stabile. Il borderline cerca sempre un maestro cui affidarsi e si affida solo a chi vede come dotato di qualche qualità a lui superiore. Ci sono persone che sono naturalmente carismatiche, ma la maggior parte, anche fra i terapeuti più avanzati, il carisma se lo sono costruito. Come possiamo da strategici diventare carismatici? Attraverso l’addestramento e l’acquisizione della comunicazione non verbale. Se facciamo attenzione al buon uso del sorriso, dello sguardo, della prossemica, se impariamo ad

usare la giusta distanza quando prescriviamo e quando ascoltiamo un paziente, gradatamente, attraverso il continuo lavoro acquisiamo carisma.

Imperturbabilità
ovvero l’arte di mantenere la calma anche quando tutti la perdono

L’imperturbabilità è la seconda caratteristica che deve avere un buon terapeuta di borderline. I pazienti sono distruttivi anche verso il terapeuta. Ti sfidano, ti svalutano, svalutano la terapia, sminuiscono il lavoro fatto, manifestano sfiducia verso il terapeuta e la terapia anche e soprattutto dopo aver raggiunto risultati significativi. Qui il terapeuta deve rimanere imperturbabile. Fa parte dell’insegnare stabilità. Come un buon comandante di nave (κυβερνήτης) non perde la calma anche di fronte alle onde anomale, così il terapeuta deve rimanere imperturbabile di fronte alle perturbazioni della persona fino a che il mare non torna calmo e tornerà calmo tanto più in fretta quanto il terapeuta si dimostrerà agli occhi del paziente in grado di gestire con pazienza e destrezza le improvvise ed impulsive aggressioni.

Direttività
ovvero la capacità di rendere stabile l’instabile

Alla fine di ogni seduta il terapeuta deve ricordare al paziente perché è lì in terapia, accogliere la fragilità del paziente, ma evitare di cadere nella trappola di far compromessi con la patologia del paziente. Deve ricordarsi e ricordare la meta e la rotta che consiste ancora nel mantenere le conquiste fatte e nell’evitare di cambiare ciò che funziona. Deve in modo direttivo indicare la rotta e continuamente insegnare a mantenerla.

Il terapeuta del borderline deve essere un abile marinaio che sa tenere la rotta anche con il mare in tempesta, facendo apprendere nel contempo al suo paziente l’arte della navigazione.

Le basi neuroscientifiche della psicoterapia

Le moderne neuroscienze hanno dimostrato che il cervello umano è permeabile alla psicoterapia, nel senso che le parole inducono cambiamenti strutturali nell’encefalo tanto quanto se non addirittura di più, e soprattutto in maniera più duratura e definitiva, di altri presidi terapeutici come gli psicofarmaci. Le neuroscienze ci stanno legittimando in tutto e ci stanno legittimando soprattutto in una cosa per me fondamentale, nel fatto che nell’inconscio ci sono le nostre principali risorse. Quando ho approcciato la prima volta la terapia strategica sono partito, come molti, dai libri di Milton Erickson, famoso ipnotista, che è stato dapprima uno psicoanalista, ha lavorato in manicomio, poi si è staccato e ha dato avvio alle terapie non comuni basate sull’ipnosi e per la prima volta nella storia sull’ipnosi senza trance. Lui diceva che vedeva nell’inconscio dei pazienti non solo i problemi, ma soprattutto le soluzioni. Le neuroscienze moderne stanno dicendo esattamente quello che diceva Erickson. Nell’inconscio umano, che è l’80% di quello che siamo e facciamo, ci sono le nostre principali risorse. Nella figura 1 e 2 vediamo il nostro cervello che è il 2% del peso corporeo. In una persona di 70 kg pesa meno di un chilo e mezzo, tanto per intenderci meno di un notebook della Apple ed è molto più performante di qualunque computer costruito dall’uomo. Nessun bioingegnere è riuscito finora a costruirlo in modo analogo. In particolare nella figura 1 vediamo la parte più superficiale del cervello che va sotto il nome di corteccia e le sue circonvoluzioni che ci distinguono dalle altre specie animali. Se prendete il cervello di un gatto, di un cane è liscio, il nostro invece ha tutte quelle circonvoluzioni e in quelle circonvoluzioni c’è la coscienza, la consapevolezza, il dire “io”, lo diciamo con quella parte del cervello, che è la parte più consapevole, è l’apice dell’evoluzione. Nessuna specie sulla terra è riuscita ad arrivare a quelle vette. E la corteccia è il 20% di quello che siamo. Se passiamo alla figura 2, vediamo invece la sezione del cervello, in particolare vediamo l’emisfero destro dalla parte mediale. Sotto la corteccia trovate il cervello più antico, che si è evoluto nella parte primordiale della nostra storia. La parte della corteccia va sotto il nome di neocerebrum, cervello nuovo, che è quello che si è evoluto per ultimo, quello che vedete sotto le circonvoluzioni viene detto archicerebrum, cervello antico, detto anche rinencefalo, il cervello dell’olfatto.

Questo organo ha permesso al genere umano di sopravvivere e di riprodursi e noi rientriamo, grazie a questo organo, nell’1% delle specie viventi comparse sulla terra che non si sono ancora estinte. Il nostro cervello ha compiuto questo miracolo.

Il cervello è la nostra centralina, in particolare il cervello superficiale è la parte più evoluta, ma ha un limite: veicola al massimo sette informazioni in parallelo. La parte centrale, più antica, è quella meno evoluta, ma veicola miliardi di informazioni in parallelo. Mentre siamo occupati a fare le nostre cose, lavorare, parlare, guardare un video, …, la parte antica del nostro cervello regola la postura, la contrazione dei muscoli volontari ed involontari, il battito cardiaco, il ritmo della respirazione, regola tutti i diametri delle arterie dall’aorta che è la più grande al più piccolo dei capillari.

L’encefalo umano viene da molto lontano. Nel 1991 due turisti tedeschi nella val Senales, in Trantino Alto Adige, facendo un itinerario un po’ alternativo alle vie turistiche normali hanno scoperto un cadavere. Impressionati hanno chiamato i soccorsi pensando che fosse il cadavere di un turista caduto accidentalmente in un canalone. La sorpresa fu che non era un turista, ma era la salma di un uomo risalente all’età del rame, al 3.200 a.C., era del neolitico. Questa salma è stata conservata dai ghiacci per più di 5000 anni ed è arrivata quasi intatta alla nostra osservazione. Sorprendente è stato scoprire che era un uomo di 45 anni, che dopo aver passato diverse pene, era stato assassinato. Era riuscito però ad avere dei figli. Ma la più grande sorpresa è stata che, analizzando il Dna di 4000, 5000 abitanti austriaci dei villaggi limitrofi, si è scoperto che il  DNA di persone del 1991 ed il DNA della salma coincidevano in 19 punti. Noi veniamo da molto lontano. Il nostro cervello non risale solo alla nostra infanzia, risale all’infanzia dell’umanità.

Le neuroscienze in particolare legittimano il nostro concetto di sistema percettivo reattivo e soprattutto legittimano la nostra filosofia di fondo, che è il costruttivismo radicale. Due scienziati, Heinz von Foerster e Ernst von Glasersfeld, uno ingegnere e l’altro matematico, avevano elaborato la filosofia del costruttivismo radicale. Avevano dimostrato che il nostro cervello, così evoluto, non descrive la realtà, ma la costruisce letteralmente. Noi vediamo i colori, ma i colori non esistono in natura. Heinz von Foerster ha dimostrato che sono onde elettromagnetiche che colpiscono i coni ed i bastoncelli della retina ed i coni ed i bastoncelli della retina trasformano queste onde elettromagnetiche nel rosso, nel verde, nel giallo, ma questi colori non esistono, sono nostre costruzioni. L’idea del costruttivismo radicale trova fondamento nelle neuroscienze in svariatissimi esperimenti. Nella figura 3 vediamo l’esperimento di Shepard, uno psicologo della Stanford University.

Come dice di lui Michael Gazzaniga nel libro La mente inventata:

R. Shepard, uno dei più importanti psicologi al mondo, muovendosi agilmente tra la matematica, la fisica, la psicologia e la teoria evolutiva, ci guida sulla percezione descrivendoci come il cervello è strutturato per vedere in un certo modo. Consideriamo la figura a. Shepard disegna due tavoli, uno sul piano verticale e l’altro sul piano orizzontale così da aggiungere prospettiva. I tavoli appaiono di forma e misura differenti, ma in realtà non è così. Ecco che state di nuovo vedendo ciò che il cervello sta facendo automaticamente per voi. Se non ci credete, prendete un foglio di carta da ricalco e disegnate il contorno della superficie del tavolo verticale, quindi poneteli sopra il tavolo orizzontale: sono esattamente della stessa misura. Fatelo e ne rimarrete stupiti.

La spiegazione di questo fenomeno risiede nel modo in cui il cervello elabora le informazioni che si trovano in una struttura bidimensionale, la retina, per trasformarle in una realtà tridimensionale. Ecco dunque cosa accade: alcuni indici che determinano l’effetto prospettico, le linee dell’asse maggiore, comportano che il tavolo sulla sinistra si estenda in profondità. Le linee dell’asse lungo del tavolo sulla destra formano un angolo retto con la linea dello sguardo. Poiché il cervello reagisce a questi indici, le immagini dei due tavoli sulla retina sono identiche. Ma il cervello risponde automaticamente agli indici di profondità del tavolo sulla sinistra e deduce (per voi) che, poiché esso si estende in profondità, l’immagine è ritratta in prospettiva; inoltre, dato che è ritratto in prospettiva come un tavolo reale in profondità reale, il tavolo verticale deve essere più lungo. Per lo stesso motivo il tavolo orizzontale sembra più largo. Ci sono anche altri indizi che contribuiscono a dare origine a questa illusione, ma anche se riuscite a comprendere appieno che le immagini sono esattamente uguali e la vostra coscienza sa questa verità, il saperlo non ha alcun effetto sulla vostra percezione. Il cervello provvede automaticamente alla correzione e voi non potete farci nulla..

Il cervello costruisce la realtà per quello che ci serve, non vuole che facciamo la fotografia di quello che c’è, vuole che costruiamo una realtà utile. Ernst von Glasersfeld usava il termine “realtà viabile”. Non ci interessa sapere come è il mondo, ci interessa muoverci in quel mondo. Così nel cervello si incontrano scienza e filosofia. Come diceva Heisenberg a proposito della fisica: le nuove scoperte scientifiche hanno implicazioni filosofiche e, a loro volta, le implicazioni filosofiche hanno ulteriori implicazioni nella scienza. 

Il cervello ha struttura microscopica molto complessa. Ha 100 miliardi di cellule nervose che sono collegate da sinapsi. Le sinapsi sono 100 mila miliardi. Le sinapsi sono state scoperte all’inizio del secolo scorso da alcuni scienziati premi nobel, uno era italiano Golgi, poi Sherrington, Cajal e da quando abbiamo scoperto le sinapsi abbiamo scoperto che il nostro cervello non è fisso come forse volevano i genetisti di una volta, ma è un computer molto evoluto che si modifica plasticamente nel corso della vita. Anche qui ci sono stati svariati filoni teorici, da chi diceva che il nostro carattere, le nostre patologie mentali fossero determinate geneticamente, a chi diceva che erano determinate dall’ambiente. La moderna genomica ha scoperto che il cervello e l’ambiente, quindi i nostri geni e l’ambiente si relazionano, comunicano e si modificano. Noi abbiamo un corredo genetico fissato che però si trascrive o si silenzia a seconda delle esperienze che facciamo. Nella figure 4 e 5 si vede la struttura delle sinapsi. Si vede il processo di una cellula nervosa che si collega con il processo di un’altra cellula nervosa, nel mezzo c’è uno spazio. Il cervello funziona per correnti elettriche, esattamente come un impianto elettrico, ma nel salto tra una cellula e l’altra il segnale elettrico viene trasferito da molecole chimiche.

La sinapsi è la base di tutto quello che si fa in psicoterapia e in psicofarmacologia. Nelle sinapsi vengono liberate delle sostanze chimiche, i neurotrasmettitori. Hanno vari nomi, quelli più interessanti da un punto di vista operativo sono sei: adrenalina, noradrenalina, acetilcolina, acido gamma amminobutirrico, dopamina, serotonina. Queste sostanze agiscono sui recettori. Il motivo per cui i neurologi, gli psichiatri danno i farmaci è che cercano di colpire con i farmaci i recettori, in modo da modificare la plasticità del cervello. Questa è la base di tutta la psicofarmacologia. L’insieme dei neurotrasmettortri chimici viene detto la “Farmacopea di Dio”. I farmacologi cercano di imitare Dio o la natura modificando i segnali elettrochimici del cervello. Le neuroscienze hanno scoperto che i recettori sono tanto sensibili ai farmaci quanto, se non di più, alle parole. In particoalre Benedetti che è il principale studioso al mondo dell’effetto placebo, lavorando sul dolore ha ottenuto effetti antidolorifici dicendo al paziente, magari un paziente oncologico con con dolori molto forti e cronici: “sto per iniettarti un antidolorifico quindi tra poco proverai sollievo dal dolore” e con una macchina iniettava l’antidolorifico. Dopo questa esperienza, al paziente, la volta dopo, veniva detta la stessa frase, ma questa volta la macchina non iniettava l’antidolorifico, partiva soltanto la parola e si è scoperto che il dolore scompariva nella stessa maniera sia con le parole che con l’antidolorifico. Come dire, visto che gli psicofarmaci sono stati inventati nel secolo scorso negli anni 50, fino agli anni 70, che quei recettori la natura li ha creati per averre sensibilità più alle parole che agli psicofarmaci. Inoltre, nel 1949 Donald Hebb, canadese ha formulato un postulato, che poi è passato alla storia come legge di Hebb, secondo cui le cellule nervose, se si attivano in serie ravvicinata nell’arco di 100 millesimi di secondo, costruiscono un circuito poloisinaptico a bassa soglia, che scatta con stimoli molto sottodimensionati. Per esempio, nel panico, il paziente costruisce un circuito polisinaptico che scatta a bassa soglia, con le tentate soluzioni dell’evitamento, del controllo delle reazioni della paura, … Se ripetuto nel tempo e fatto scattare in serie ravvicinata si costruisce un sistema polisinaptico irrefrenabile, che ad un certo punto scatta da solo. Le neuroscienze hanno scoperto, anche con moderni sistemi di radiologia per immagini, che noi costruiamo la patologie creando dei circuiti che ad un ceto punto scattano al di fuori della nostra volontà, quind a livello sottocorticale. La psicoterapia viene ulteriormente legittimata, basti pensare al nostro costrutto di “tentata soluzione” e alle nostre terapie che usano delle tecniche, tipo la mezzora di peggiore fantasia, ripetuta per due settimane che poi prosegue ai 5 minurti per 5 volte al giorno, … Costruiamo un circuito polisinaptico a basa soglia che poi scatta da sé anche quando noi leveremo i compiti. I neuroscienziati hanno scoperto che le patologie, ma anche le terapie vengono costruite attraverso a modificazioni microstrutturali del cervello. Con la psicoterapia si possono costruire circuiti polisinaptici virtuosi al posto di circuiti viziosi. Come diceva il linguista Austin si possono fare cose con le parole.

Bibliografia di riferimento

AA.VV. Neuroscienze, Zanichelli
J.L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti
J. Bargh, A tua insaputa, Boringhieri
M. Gazzaniga, La mente inventata, Guerini e Associati
M. Goldwell, In un batter di ciglia, Mondadori
W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Feltrinelli

Psicosi e presunte psicosi

Video intervista ad Andrea Vallarino sul canale Facebook del Centro di Terapia Strategica di Arezzo

Il tema della psicosi rappresenta un terreno di incontro tra la psicoterapia, le neuroscienze e la psicofarmacologia.

Innanzitutto bisogna definire la psicosi, che è una sindrome che denota più malattie. La malattia più significativa tra le psicosi è la schizofrenia.

La schizofrenia viene definita da sintomi positivi, laddove per positivi si intende che aggiungono qualcosa al paziente, non certo che sono funzionali: deliri e allucinazioni. Tra i deliri quello più evocativo è il delirio di persecuzione. Il paziente ritiene di essere vittima di complotti o di essere controllato da forze esterne; ma anche il delirio di grandezza ed il delirio religioso. E da sintomi negativi, perché sottraggono qualcosa alle risorse della persona: sintomi cognitivi come eloqui senza senso, incapacità di definire i contesti relazionali, comportamenti afinalistici, comportamenti aggressivi, abulia, alogia, anedonia.

Il problema è come diagnosticare la schizofrenia. Al riguardo mi viene in mente l’esperimento di David L. Roshenam per verificare la scientificità delle diagnosi psichiatriche. Un gruppo di  otto pseudopazienti, tra cui psicologi e psichiatri, che decisero segretamente, a scopo di ricerca, di presentarsi in vari ospedali lamentando sintomi e disturbi di natura psichiatrica (sentivano delle voci). Furono tutti quanti ricoverati in reparti di psichiatria.

Dopo qualche giorno di ricovero avrebbero dovuto mostrarsi per quello che erano e cioè persone “sane”. Tutte le volte che gli veniva chiesto come stavano esibivano la loro salute mentale, dicendo come d‘altra parte era vero, che si sentivano bene, che non sentivano le voci, che non avevano più nessuno dei sintomi psichiatrici per cui erano stati ricoverati con la diagnosi di “schizofrenia”, né avevano alcun altro sintomo. Non ci fu verso perché tutti vennero dimessi dopo altri lunghi giorni e settimane di ricovero con la diagnosi confermata di “schizofrenia” anche se in remissione. Gli unici che si accorsero del ‘gioco’ furono gli altri pazienti che individuarono gli ‘infiltrati’, dicendo: ‘…tu non sei pazzo, tu sei un professore universitario; …tu un giornalista…, etc.’.

In terapia strategica si privilegia la diagnosi operativa: si interviene sulla persona con tecniche non invasive per verificare la diagnosi sulla base della risposta all’intervento. Nell’ambito delle psicosi si interviene con un controdelirio. L’esempio più fulmineo di controdelirio che io ricordo è il caso descritto da Don D. Jackson, fondatore del Mental Research Institute di Palo Alto in California, del paziente che entra nella stanza della seduta psicoterapeutica, si siede e dice: “Dottore, dottore, lei sa che qui in questa stanza ci sono delle microspie?” Ed il dottore disse: “ Ah, sì? Cerchiamole!” Si misero a cercare insieme le microspie per un po’, finché il paziente si fermò e disse: “Dottore, qui uno dei due è pazzo!”  Secondo la logica della contraddizione, il limite di un delirio è un delirio più grande, per cui la strategia usata con i pazienti in questi casi è o assecondare il delirio, condividendolo con il paziente, o idearne uno simile per struttura, ma più grande per contesto. Un medico o uno psicologo, semplicemente assecondando un delirio, creano un doppio legame terapeutico al posto dei doppi legami patogeni  cui sono stati sottoposti i pazienti nei loro contesti. Si devono creare di volta in volta controdeliri calzanti. Ad un delirio religioso si risponde con un controdelirio religioso. Ad un delirio su base tecnologica (mi spiano attraverso il computer), si risponde con un controdelirio tecnologico.

Se poi, attraverso i metodi della psicoterapia, il paziente guarisce si conclude di essere stati di fronte ad una presunta psicosi, in quanto la psicosi vera per definizione è inguaribile.

Nel caso, invece, ci si trovi di fronte ad una schizofrenia vera occorre utilizzare anche gli psicofarmaci.

Per somministrare gli psicofarmaci bisogna conoscere bene la neurotrasmissione chimica del cervello. La base della psicofarmacologia è la conoscenza dei neurotrasmettitori chimici che sono alcune dozzine, ma al momento quelli importanti per guidare la cura farmacologica delle sindromi psichiatriche sono sei: acetilcolina, noradrenalina, serotonina dopamina, glutammato, GABA (acido gamma amino butirrico).
Il neurotrasmettitore implicato nella schizofrenia è la dopamina. Le neuroscienze moderne ipotizzano che nella schizofrenia ci sia una disconnessione tra neuroni gabaergici e circuiti glutammatergici che si attivano in modo eccessivo attivando a loro volta i circuiti dopaminergici con la secrezione di un eccesso di dopamina, che è alla base dei sintomi postivi con la stimolazione della via mesolimbica che coinvolge il nucleo accumbens (adiacente, accumbens septi, adiacente al setto che divide l’emisfero destro dall’emisfero sinistro del cervello. In altre vie come la via mesocorticale, la via nigrostriatale e la via tuberoinfundibolare con lo stesso meccanismo dell’attivazione delle vie glutammatergiche si crea una diminuzione della dopamina, perché tra la vie glutammatergiche e le vie dopaminergiche si inseriscono neuroni gabaergici che hanno una funzione inibitoria. E’ la teoria dei quattro neuroni: la disconnessione tra una neurone gabaergico e la via glutammatergica crea una’attivazione dei neuroni glutammato che crea un’attivazione di un neurone GABA inibitore del neurone a dopamina, creando un deficit di dopamina nelle vie citate con la creazione di sintomi motori, tremori a tipo Parkinson, sintomi cognitivi, emotivi, ed anche ormonali con galattorrea tanto nell’uomo che nella donna. Su questi sintomi i farmaci a disposizione sono gli antipsicotici di prima generazione come l’aloperidolo, che però hanno importanti effetti collaterali, antipsicotici di seconda generazione, che vengono detti anche antipsicotici atipici perché hanno meno effetti collaterali, e infine antipsicotici di terza generazione (agonisti parziali) che allo stesso modo creano meno effetti collaterali.

Quello che colpisce nell’analisi della schizofrenia da parte dei neuroscienziati è che vengono accreditate molte delle tesi della psicoterapia, in particolare della terapia strategica. I neuroscienziati negano che ci sia una causa genetica della schizofrenia. D’altra parte la prova più evidente di questo risiede nei gemelli omozigoti che hanno lo stesso patrimonio genetico, in cui uno dei gemelli diventa schizofrenico e l’altro invece no. Se fosse vera la teoria genetica dovrebbero essere o entrambi schizofrenici o entrambi sani.

Lo studio della neurotrasmissione chimica, che viene detta anche la Farmacopea di Dio ha evidenziato come i neurotrasmettitori hanno influenze sulla trascrizione o sul silenziamento dei geni dei neuroni. Gli psicofarmaci agirebbero, in via sperimentale almeno, come favorenti o inibenti della trascrizione e del silenziamento dei geni dei neuroni. Allo stesso modo agirebbero le tecniche e le parole della psicoterapia. E’ vero quindi che la genetica dei neuroni influenza il comportamento, ma è altresì vero che il comportamento influenza la genetica. La psicoterapia creando anche nuovi circuiti polisinaptici ed influenzando la evidenziazione di geni silenziati o il silenziamento di geni trascritti influenza in modo diretto la plasticità del cervello. Quindi assume importanza nella genesi delle malattie psichiatriche, non tanto la grnetica, quanto l’epigenetica, cioè la modulazione dei geni dei neuroni.

D’altra parte i primi antipsicotici sono stati scoperti negli anni 50 del secolo scorso, mentre l’evoluzione cerebrale è iniziata milioni di anni fa e l’uomo ha inventato prima il linguaggio degli psicofarmaci. Anche studi recenti sull’effetto placebo testimoniano come i recettori cerebrali in alcuni casi rispondano alle parole oltre che a i farmaci.

Le neuroscienze e la psicofarmacologia moderne lungi dal limitare l’importanza della psicoterapia ne ampliano le prospettive.

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Scienza della performance

Congratulazioni alla nostra collega Tiziana De Giulio, psicoterapeuta di Bari, in basso a destra nella foto, per il brillante terzo posto nei campionati italiani di nuoto in apnea pinne, oltre al quarto posto nella sezione apnea monopinna con 205 metri. Il suo commento è stato: “Sono andata oltre quello che mi aspettavo e oltre quello che il corpo senza allenamento mi avrebbe permesso (a causa del lavoro, infatti, non ho avuto tempo di allenarmi come avrei dovuto). Insomma la testa ha fatto la gara e ha superato i limiti del corpo. Le mie risorse di psicoterapeuta mi hanno aiutato nella performance sportiva.”

Prendiamo spunto dalla nostra collega per illustrare quello che è l’apporto della psicologia allo sport. Nello sport l’apporto della psicologia va sotto il nome di coaching. Gli sportivi non chiedono aiuto per problemi da risolvere, ma ci chiedono lo sblocco della performance, cioè l’andare oltre le proprie normali capacità.

Occorre stare attenti nella comunicazione con gli atleti nel non confondere i livelli dell’aiuto. Ci proponiamo non come terapeuti in one up position, ma alla pari come allenatori. E’ importante porsi in collaborazione simmetrica, cioè sullo stesso piano. Noi chiediamo informazioni sullo sport praticato e tutti i dettagli che può conoscere solo l’atleta e cerchiamo di proporre l’aiuto secondo le nostre tecnologie. Posso anche non utilizzare lo studio, che da l’idea dell’intervento clinico, per il coaching e spesso scelgo un’altra sede, la sede stessa dell’allenamento o una sala che non rimandi all’idea della psicoterapia.

L’intervento più semplice di coaching consiste nell’utilizzare la mezzora e l’ipnosi.

Si propone all’atleta prima degli allenamenti e poco prima della gara di ritagliarsi una mezzora in cui mettere le peggiori fantasie rispetto alla performance, tutte le ansie della competizione, tutta la paura di non riuscire, di fare una brutta figura rispetto agli altri atleti ed al pubblico ed ai propri fans, insomma tutti i peggiori pensieri e ansie per canalizzarle prima degli allenamenti e prima della gara. Quello che succede è che effettivamente mettendo i pensieri alcuni riempiono la mezzora di paensieri e stanno male nella mezzora, i più ossessivi, ma hanno la mente sgombera durante gli allenamenti e la gare, altri non riescono neanche nella mezzora a stare male perché scatta un paradosso, per cui più cercano il negativo, più si distraggono e la mente si alleggerisce e va su pensieri positivi ed anche in questo caso la performance tanto in allenamento, quanto soprattutto in gara ne beneficia aumentando il rendimento atletico. Nell’antica Cina questo stragemma veniva definito “spegnere il fuoco, aggiungendo legna”.

La sera, dopo l’allenamento, si addestra l’atleta all’autoipnosi durante la quale una volta raggiunta la trance dovrà immaginare la sua performance fluida, lieve, potente, efficace. Dovrà in una parola immaginarsi mentre gareggia in modo proficuo e performante. Se è un pugile mentre porta dei colpi con destrezza e potenza, se è un golfista mentre colpisce la pallina in modo preciso, se è un nuotatore mentre sfila nell’acqua in modo veloce, con stile fluido e riducendo l’attrito nell’acqua. Negli sport in cui è necessario ridurre l’utilizzo di energia, in ipnosi si può addestrare l’atleta a ridurre la frequenza del battito cardiaco.

Personalmente ho utilizzato l’ipnosi con atleti di vari sport. Dal nuoto, allo sci, al golf, al pugilato, al calcio professionistico di serie A e B, alla scherma, al motociclismo, con ottimi risultati. L’unica clausola che viene richiesta all’atleta è di impegnarsi ad essere sistematico nell’applicare le tecniche. La sistematicità nel’applicare le tecniche è fondamentale perché nello sblocco della performance si tratta di costruire dal nuovo un sistema percettivo reattivo che automaticamente scatti al momento della gara costruendo in modo spontaneo l’aumento di rendimento e la nuova performance. Anche qui si vede la differenza tra fare terapia e coaching o come meglio viene definito attualmente “scienza della performance”. In psicoterapia si tratta di sbloccare un sistema percettivo reattivo esistente, nello sblocco della performance si tratta di costruire un sistema percettivo reattivo nuovo.