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Mutismo Selettivo

Non c’è dubbio che nessun poeta potrà dire di te (che vivi in famiglia) ciò che il poeta dice dell’astuto Ulisse, ossia che vide città popolose e imparò a conoscere i costumi di quelle genti, ma è lecito chiedersi se, rimanendo a casa con Penelope, egli  non avrebbe acquistato conoscenza di altrettanto grandi e piacevoli cose. (Soren Kierkegaard)

Uno dei momenti più critici dello sviluppo evolutivo di un bambino è il passaggio dalla famiglia alla scuola materna ed alla scuola elementare. E’ un passaggio critico perché si passa da ambienti molto protetti in cui non viene chiesta alcuna prestazione: il bambino vale per quello che è al di là di quello che fa; ad un contesto in cui si comincia ad essere valutati anche per quello che si fa. Nonostante tutti i tentativi di allentare la tensione sul rendimento nella scuola materna ed elementare, nella percezione di tutti: bambini, insegnanti, genitori, nonni, questo momento di passaggio è vissuto con qualche normale ansietà. E’ il primo momento di socializzazione in ambienti dove scattano spontaneamente anche meccanismi di competizione e dove soprattutto il bambino è chiamato ad esporsi.

Di fronte a questa ansia da prestazione, tante possono essere le difficoltà da superare: dalle problematiche dell’apprendimento, alla socializzazione, al rapporto con gli adulti e con il gruppo dei pari. Normali difficoltà che possono trasformarsi in problemi, se affrontate in modo inadeguato. Ed in genere, l’adulto di fronte all’ansia del piccolo reagisce basandosi sulle proprie capacità razionali, molto spesso dimenticandosi di quando lui stesso era bambino. Ad esempio, si può avere la tentazione di:

minimizzare:
“sono cose che sono successe anche  me, mai io poi ho reagito”;
razionalizzare:
“quando ti interroga la maestra tu stai calmo”, facendo scattare un meccanismo paradossale, per cui più si parla con il bambino incitandolo alla calma, più si creerà blocco emotivo;
o peggio ancora “intanto stai a casa, poi quando ti passerà tornerai a scuola”, facendo scattare la tentata soluzione dell’evitamento scolastico;
o di etichettare, magari attraverso certificati medici prodotti da specialisti o attraverso terapie dirette sul bambino (A. Vallarino et altri, 2012).

Tra le problematiche rilevate in questo fase dello sviluppo evolutivo, che comporta l’ingresso in contesti sociali più ampi, si possono verificare disturbi dell’apprendimento e del comportamento scolastico (ad esempio il disturbo dell’attenzione con iperattività), disturbi di relazione con l’adulto o l’insegnante (come il disturbo oppositivo/provocativo), disturbi di evitamento del contesto scolastico, presunte fobie o anche disturbi di rilevanza clinica (Fiorenza, Nardone, 1995).

Riporto qui un caso di soluzione in tempi rapidi di un caso di mutismo selettivo, dove le soluzioni adottate, che si sono dimostrate efficaci, hanno innanzitutto evitato di etichettare in senso clinico una bambina, lavorando in modo indiretto e con logiche non ordinarie attraverso la famiglia e la scuola.

Doppio intervento indiretto su un caso di mutismo selettivo

Viene da me una mamma disperata, perché la sua bambina che frequenta ormai la quarta elementare, da diversi anni non parla negli ambienti extra famigliari e cioè ad esempio quando esce e va nei negozi, o con persone che non appartengono alla famiglia, parla soltanto in casa con la mamma, il papà ed il fratello. Il mutismo è esteso agli ambienti scolastici a partire già dalla scuola materna e vieppiù ora nella scuola elementare.

Di fronte a questo problema, i tentativi di soluzione dei genitori sono stati: spronarla a parlare,  tranquillizzarla rispetto allo stress della scuola, intervenire a livello dei contenuti scolastici, facendole ripetere la lezione più volte a casa; ma niente, la bambina continuava  a restare muta negli ambienti extra famigliari. A questi tentativi disperati e senza esito dei genitori, si sommavano nell’ambito scolastico i tentativi degli insegnanti: “su, parla, non hai alcun problema, perché non farlo, sei come tutti gli altri, ti interroghiamo e ti chiediamo quello che vuoi”; cioè in sintesi cercavano di incitarla a parlare e di fronte al fallimento dei tentativi, hanno poi cercato di facilitare le interrogazioni, ma senza alcun risultato. Alla fine si sono arresi ed hanno proceduto con interrogazioni scritte. Quasi quattro anni di fila così, oltre agli anni della scuola materna, senza che la bambina parlasse con gli insegnanti. Parlava, ma solo con gli altri bambini, quando gli insegnanti non potevano sentirla. Oltre a questo si sono susseguiti tentativi di psicoterapia diretta sulla bambina ed interventi sistemici su tutta la famiglia, senza alcun esito.

Il quadro soddisfaceva in pieno i criteri diagnostici del mutismo selettivo indicati dal DSM. Infatti, secondo il DSM-IV, i criteri diagnostici per individuare un bambino selettivamente muto sono i seguenti:

  1. Il bambino non parla in determinati luoghi, come la scuola o altre situazioni sociali.
  2. Ma, il bambino parla normalmente nelle situazioni in cui si trova a suo agio, come nella propria casa. (Sebbene alcuni bambini possano essere muti in casa)
  3. L’incapacità del bambino di parlare interferisce con la sua capacità di “funzionare” nel contesto scolastico e/o nelle situazioni sociali.
  4. Il mutismo dura da almeno un mese.
  5. Non sono presenti disturbi della comunicazione (come la balbuzie) e altri disturbi mentali (come autismo, schizofrenia, ritardo mentale).

Si è proceduto rilevando le T. S. soluzioni disfunzionali degli adulti, che erano:

  • continui inviti a parlare
  • cercare argomenti di conversazione che potessero essere di interesse della bambina

La soluzione si è trovata rovesciando il quadro relazionale, secondo i dettami della tecnica della frustrazione del sintomo (Fiorenza, Nardone, 1995) e cioè:

alla mamma è stato prescritto, quando entrava ad esempio nei negozi, gelaterie o ristoranti, dapprima di chiedere alla bambina cosa volesse e, se non rispondeva, di commettere deliberatamente errori: se sapeva che le piaceva il gelato alla crema di ordinarglielo volutamente di un altro gusto, se al ristorante non chiedeva i piatti che voleva, di ordinare volutamente cose che non piacevano alla bimba. Analogamente se veniva qualche estraneo in casa, di intavolare discorsi noiosi da adulti, senza mai interpellarla. Nel caso la bimba avesse  chiesto di parlare, di invitarla cortesemente a non interrompere gli adulti.

In capo ad un mese, la bambina aveva cominciato a parlare in quasi tutti gli ambienti extrafamigliari. A partire da un episodio in gelateria dove si era ribellata all’ennesimo gelato ordinato dalla mamma non di suo gradimento. “No, io voglio il gelato alla crema e non al pistacchio”- Il primo segnale di sblocco di fronte ad un estraneo: la commessa della gelateria. In casa di fronte alla vicina di casa con la quale non aveva mai parlato, ha protestato che i discorsi erano troppo noiosi e che voleva intervenire anche lei.

Rimaneva, però, la scuola, dove la bambina continuava a rimanere muta, percependola come il contesto sociale più espositivo.

Allora, sempre in modo indiretto, dopo alcune riunioni con gli insegnanti, si è proceduto attraverso uno stratagemma basato su un doppio legame. Il doppio legame è una comunicazione particolare che poggia su una contraddizione. Prima si afferma una verità e subito dopo si nega quella affermazione. Prima si afferma il vero e poi il falso ma in tempi diversi.

Di fronte al doppio legame contraddittorio della bambina: sarebbe giusto che io parlassi, ma non riesco a farlo con voi, il cambiamento è stato ottenuto portando ad esasperazione la contraddizione (G. Nardone, 2008), proponendo un doppio legame terapeutico: “noi non vogliamo parlare con te, ma ora parleremo con te. Come? Attraverso i suoi compagni. Si è cominciato ad interrogarla con l’ausilio di un compagno di classe, rivolgendo le domande a lui, che avrebbe dovuto ripeterle alla bimba, la quale a sua volta doveva rispondere rivolgendosi al compagno che poi avrebbe ripetuto la risposta alla maestra. Ad esempio: “Quando Colombo ha scoperto l’America?”. Ed il compagno rivolto alla ragazza che ovviamente aveva ben sentito la domanda. “Quando Colombo ha scoperto l’America?”. Lei rivolta al compagno: “nel 1492”, ed il compagno alla maestra: “ha detto nel 1492”. Dopo un paio di settimane di questo nuovo “gioco” comunicativo, la bambina ha cominciato a parlare con le maestre direttamente, saltando l’intermediazione dei compagni.

Sono state fatte varie riunioni di verifica a distanza di tempo sia con le maestre che con la mamma, in cui è risultato che i bambini, con molta simpatia,  riportavano alle loro mamme che la compagna aveva davvero una bella voce e le maestre verificavano come ormai fosse davvero difficile farla tacere. La bimba aveva non solo ritrovato la parola con gli adulti in classe, ma aveva anche trovato gusto a parlare, tanto che risultava adesso difficile riportarla all’ordine, difficoltà mai così ben accolta dalle maestre ed anche, se si può dire, dal terapeuta scrivente. Ovviamente in tutto questo lavoro, la bimba non ha mai conosciuto il terapeuta, né mai ha avuto sentore di un intervento indiretto sulle maestre e sui famigliari.

BIBLIOGRAFIA
  • Fiorenza, G. Nardone, L’intervento strategico nei contesti educativi, Giuffrè, Milano, 1995
  • Kierkegaard, Sul matrimonio, pillole BUR, Milano, 2006
  • Nardone, E. Balbi, “Solcare il mare all’insaputa dl cielo”, Ponte alle Grazie, Milano, 2008
  • Vallarino et altri, in Nardone e l’Equipe del Centro di Terapia Strategica, Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Ponte alle Grazie, Milano, 2012

Disturbi specifici dell’apprendimento

Non lavoro quasi mai sui disturbi dell’apprendimento direttamente o nelle istituzioni scolastiche. Ma nel lavoro di studio spesso vengo interpellato da genitori che, su indicazione degli insegnanti, chiedono interventi sui figli per migliorare o superare difficoltà scolastiche. Uno degli argomenti su cui vengo sempre più spesso interpellato è la dislessia. Diagnosi che, per altro, è sempre più frequente. Storicamente è nata negli Stati Uniti quando nelle scuole alla popolazione studentesca di origine irlandese si era aggiunto un folto drappello di studenti di origine ispanica che ovviamente non conosceva la lingua inglese. Gli insegnanti chiesero alle direzioni delle scuole un insegnante d’appoggio per poter dialogare con gli studenti stranieri, un insegnante di sostegno che potesse fungere da interprete e da mediatore culturale. I direttori per esaudire la richiesta dovevano accedere a fondi aggiuntivi che sarebbero stati stanziati solo dietro presentazione di una diagnosi medica che stabilisse la necessità di un insegnante d’appoggio per l’allievo. I medici interpellati inventarono quindi la dislessia, letteralmente difficoltà nella parola, frase e avevano difficoltà nell’inglese perché spagnoli. La diagnosi venne poi importata in Europa e presa per buona.

Memore di queste origini, tutte le volte che mi viene presentato uno studente come dislessico, vado cauto nell’intervento e mi preoccupo innanzitutto di non etichettare l’alunno.

Viene da me una signora preoccupata per la figlia di 9 anni che frequenta la terza elementare. La signora, in precedenza mia paziente per un problema clinico risolto completamente, mi riferisce che le maestre della figlia hanno diagnosticato difficoltà di apprendimento della figlia ed una dislessia per la quale vogliono indirizzarla ad una consulente esterna alla scuola dove di solito indirizzano i bambini con problemi analoghi. Preoccupata spiega che lei vorrebbe che l’intervento lo facessi io. Innanzitutto cerco di sdrammatizzare, spiegando che il disturbo diagnosticato non ha una grande incidenza, come viene invece modernamente ritenuto. Dico alla signora di tornare dalle maestre e di riferire che abbiamo già iniziato a lavorare con la bambina e che le ringrazio perché sono state tempestive nel diagnosticare il problema. Dico anche di riferire che a breve vedranno i primi risultati. La signora rincuorata provvede a fare quello che le chiedo. Non vedo la bambina e chiedo semplicemente alla signora di riferirmi quello che eventualmente le diranno le maestre. Trascorrono circa due mesi, dopo di che ricevo una telefonata dalla signora, molto preoccupata a giudicare dal tono della voce. Mi spiega che le maestre nella nuova tornata di colloqui con i genitori le hanno riferito degli enormi progressi fatti dalla bimba e si complimentano per il notevole rendimento scolastico raggiunto negli ultimi tempi. Bravissima nella lettura, praticamente la migliore della classe. Chiedo allora come mai sia così preoccupata e mi spiega che le maestre hanno chiesto il mio recapito per poter inviare altri bimbi da me. Come glielo spieghiamo che abbiamo usato un trucco? Effettivamente sono poi stato contattato dall’Istituto per poter lavorare sui disturbi di apprendimento dei bambini, ma ho trasformato la richiesta in una serie di supervisioni agli insegnanti per fare in modo di lavorare attraverso di loro senza vedere i bambini, salvo in casi particolari.

Come è potuto succedere che una dislessia sia stata curata in due mesi senza intervento?

L’intervento c’è stato ma non sul bambino, si è intervenuti sulla percezione del bambino da parte dell’insegnante. Con poche parole si è dirottata l’attenzione dell’insegnante dagli errori della bambina a quanto invece di buono faceva. Ciò crea quello che in comunicazione si chiama profezia che si autoavvera. Andando a cercare i miglioramenti dell’allieva la maestra li crea. Avviene quello che in letteratura va sotto il nome di effetto pigmalione. Lo Psicologo Robert Rosenthal dell’Università di Harvard nel suo libro dal titolo “Pigmalione in classe” riferisce di un esperimento condotto alla Oak-school. Come descrive Paul Watzlawick nel libro “La realtà Inventata” si tratta di una scuola elementare con 18 maestre e più di 650 allievi. La profezia autodeterminantesi veniva indotta negli insegnati nel seguente modo: prima dell’inizio di un determinato anno scolastico si sottoponevano gli allievi a un test di intelligenza; alle maestre si comunicava che, oltre a stabilire i livelli di intelligenza, il test avrebbe anche consentito di individuare quel 20% di scolari che durante l’imminente anno scolastico avrebbero fatto rapidi progressi e fornito prestazioni al di sopra della media. Dopo l’attuazione del test d’intelligenza, ma ancora prima che avessero incontrato il loro nuovi allievi, le maestre ricevevano i nomi (presi in modo del tutto arbitrario dall’elenco degli scolari) di coloro che, in base al test, si poteva supporre con un certo grado di sicurezza che avrebbero fornito prestazioni eccezionali. La differenza fra questi e gli altri bambini esisteva soltanto nella testa della maestra in questione. Quando alla fine dell’anno scolastico lo stesso test di intelligenza veniva ripetuto, esso mostrava realmente un aumento al di sopra della media del quoziente d’intelligenza e delle prestazioni degli allievi che erano stati prescelti, e i racconti delle insegnanti dimostravano inoltre che questi bambini si distinguevano positivamente dai loro compagni di scuola anche per il loro comportamento, per la loro curiosità intellettuale, per il loro spirito di collaborazione e così via. Lo stesso è avvenuto per la nostra giovane allieva.

L’intervento è molto fine perché oltretutto evita di etichettare il bambino. In psicologia la diagnosi non descrive la malattia, ma la inventa. E’ il fenomeno del “labeling” ovvero dell’etichettamento. Uno degli esempi più fulminei di questo lo sia ha in una ricerca fatta da David L. Rosenham. Un gruppo di otto pseudopazienti, tra cui psicologi e psichiatri, che decisero segretamente, a scopo di ricerca, di presentarsi in vari ospedali lamentando sintomi e disturbi di natura psichiatrica (sentivano delle voci). Furono tutti quanti ricoverati in reparti di psichiatria.

Dopo qualche giorno di ricovero avrebbero dovuto mostrarsi per quello che erano e cioè persone “sane”. Tutte le volte che gli veniva chiesto come stavano esibivano la loro salute mentale, dicendo come d‘altra parte era vero, che si sentivano bene, che non sentivano le voci, che non avevano più nessuno dei sintomi psichiatrici per cui erano stati ricoverati con la diagnosi di “schizofrenia”, né avevano alcun altro sintomo. Non ci fu verso perché tutti vennero dimessi dopo altri lunghi giorni e settimane di ricovero con la diagnosi confermata di “schizofrenia” anche se in remissione. Gli unici che si accorsero del ‘gioco’ furono gli altri pazienti che individuarono gli ‘infiltrati’, dicendo: ‘…tu non sei pazzo, tu sei un professore universitario; …tu un giornalista…, etc.’. Una falsa etichetta crea una realtà vera: il ricovero in psichiatria. Nel caso di giovani studenti l’imperativo medico deontologico “primum non nocere” è particolarmente importante e consiste innanzitutto nell’evitare le etichette diagnostiche.

Progetto per una psichiatria dal volto umano

Ho assunto da circa un anno la direzione sanitaria di alcune Comunità Psichiatriche. Inizialmente l’ho fatto per simpatia verso i gestori, persone alcune con le quali collaboro da anni. Avevo qualche riserva sul piano professionale, in quanto le strutture sono istituzioni psichiatriche e pertanto distanti da quella che è la mentalità di noi strategici. Infatti, si tratta di ricoveri anche di lunga durata in comunità, che per quanto aperte e propedeutiche ad una vita autonoma, risultano estranee ai contesti di vita delle persone. Gli utenti sono pazienti dei servizi pubblici, con storie psichiatriche travagliate, costellate di ricoveri e Trattamenti Sanitari Obbligatori, diagnosi che lasciano poco spazio alla speranza: psicosi, disturbo schizoide di personalità… Etichette pesanti, comunicate anche ai famigliari, che guardano al futuro dei propri figli con amarezza e rassegnazione senza più investimenti educativi. Le terapie praticate sono principalmente a base di farmaci, neurolettici ed antidepressivi in primis.

Ho assunto questo lavoro anche con la motivazione della sfida. Una volta, in un seminario tenuto in un servizio pubblico, una collega psichiatra mi aveva contestato dicendomi che avrebbe voluto vedermi lavorare con persone che per condizione economica e sociale non avrebbero potuto permettersi una psicoterapia o non ne avrebbero retto gli effetti. Invece io credo che si possa essere strategici anche con pazienti che per storia sociale e sanitaria risultano “oggettivamente” meno dotati. D’altra parte i padri dell’approccio strategico avevano lavorato principalmente, se non esclusivamente, con pazienti istituzionalizzati. Don D. Jackson aveva fondato il Mental Research Institute proprio a partire dal lavoro su psicotici ed i loro famigliari. Milton Erickson aveva avviato le sue “terapie non comuni”  in ospedale psichiatrico. Dovendo trattare con persone psicotiche e con disturbi di personalità, ho usato principalmente le manovre che si usano in questi casi, secondo la Terapia Breve Strategica (Giorgio Nardone model): il controdelirio, la congiura del silenzio ed il rituale del pulpito, il diario del delirio e delle paranoie, ma soprattutto la relazione carismatica.

Controdelirio

L’esempio più fulmineo di controdelirio che io ricordo è il caso descritto da Don D. Jackson del paziente che entra nella stanza della seduta psicoterapeutica, si siede e dice: “Dottore, dottore, lei sa che qui in questa stanza ci sono delle microspie?” Ed il dottore disse: “ Ah, sì? Cerchiamole!” Si misero a cercare insieme le microspie per un po’, finché il paziente si fermò e disse: “Dottore, qui uno dei due è pazzo!”  Secondo la logica della contraddizione, il limite di un delirio è un delirio più grande, per cui la strategia usata con i pazienti in questi casi è o assecondare il delirio, condividendolo con il paziente, o idearne uno simile per struttura, ma più grande per contesto. Un medico o uno psicologo, semplicemente assecondando un delirio, creano un doppio legame terapeutico al posto dei doppi legami patogeni  cui sono stati sottoposti i pazienti nei loro contesti. Analogamente nella comunità si creavano di volta in volta controdeliri calzanti. Ad un delirio religioso si rispondeva con un controdelirio religioso. Ad un delirio su base tecnologica (mi spiano attraverso il computer), si rispondeva con un controdelirio tecnologico.

La congiura del silenzio

Occorre evitare quello che tutti fanno sulle psicosi, basandosi sul senso comune e cioè le razionalizzazioni, le rassicurazioni, il dialogo, che ho visto fare anche da eminenti psichiatri, tutte cose che non funzionano, perché il portare a ragione il delirio lo fa radicare sempre più. Per cui è stata data la direttiva agli educatori ed agli operatori della comunità di evitare durante la giornata rassicurazioni o dialoghi sui sintomi. Ogni giorno, però, ciascun paziente aveva diritto ad una mezzora, contrattata nei tempi e negli spazi, di ascolto sui sintomi. L’operatore dava il palcoscenico in seduta, e cioè ascoltava in religioso silenzio il fiume delirante o paranoide della persona. In più o alternativamente si usava il diario del delirio. Si prescrive al paziente “tutto il contenuto delirante che tu hai o che tu senti, lo scrivi e lo porti a me così lo analizziamo”.

Relazione carismatica

L’evidenza che più balza all’attenzione nel lavoro con queste persone sono le tentate soluzioni  degli operatori anche i più qualificati: o evitare il contatto perché troppo impegnativi (non è un caso che nelle strutture sanitarie l’avanzamento di carriera coincida con l’allontanamento dai pazienti. A volte ha più contatto con il paziente difficile lo specializzando che il direttore); o diventare complementari rispetto alle patologie con atteggiamenti di disponibilità “amichevole” che di fatto contribuiscono a cronicizzare il paziente. Abbiamo invece favorito una relazione che desse disponibilità, ma anche direttività, accoglienza rispetto ai sintomi ed alle visioni distorte, ma sistematicità nel perseguire gli obiettivi terapeutici. In particolare nei pazienti con disturbo borderline di personalità non sono tanto importanti le tecniche quanto il carisma dell’operatore, che deve proporsi come un buon modello. Per questo è stata data molta importanza, nella formazione dell’operatore di comunità, all’uso della comunicazione non verbale: il sorriso, lo sguardo, la postura, la gestione dello spazio prossemico ed il  loro uso nel colloquio con le persone, cioè di tutti quegli aspetti che contribuiscono a fare dell’operatore un modello da seguire.

L’effetto dell’approccio strategico ad un’utenza da sempre trattata in modo tradizionale è stato eclatante. Come i pazienti descritti dal neurologo Oliver Sacks nel libro Risvegli, sembravano ridestarsi di fronte ad una comunicazione tanto diversa. Non più diagnosi psichiatriche e terapie farmacologiche, ma comunicazioni terapeutiche con possibilità di soluzioni. Non più tremori alle mani, effetto collaterale di neurolettici, ma possibilità di ridurre i farmaci in modo controllato. Dopo un anno di lavoro è ancora presto per stilare statistiche, ma devo dire che a giudicare da ritorni a scuola ed avviamenti al lavoro insperati, i primi risultati sono incoraggianti e spingono ad ulteriori sperimentazioni.

BIBLIOGRAFIA
  • Haley, J., Uncommon Therapy, The psychiatric techniques of M. Erickson M.D., W.W. Norton and Co., New York; tr. it., Terapie non comuni, Astrolabio, Roma, 1976;
  • G. Nardone, P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990;
  • E. Sluzki, D. C. Ransom, Double bind, the foundation of the communicational approach to the family, Grune & Stratton, 1976, New York; tr. it., Il doppio legame, Astrolabio, 1979, Roma;
  • Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fish, R., Change: principles of problem formation and problem solution, W.W. Norton Co., New York; tr. it., Change: la formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma.
  • Sacks, O., Awakenings; tr. it., Risvegli, Adelphi, Milano, 1995.