La gestione strategica delle comunità psichiatriche
Ho assunto da circa un anno la direzione sanitaria di alcune Comunità Psichiatriche. Inizialmente l’ho fatto per simpatia verso i gestori, persone alcune con le quali collaboro da anni. Avevo qualche riserva sul piano professionale, in quanto le strutture sono istituzioni psichiatriche e pertanto distanti da quella che è la mentalità di noi strategici. Infatti, si tratta di ricoveri anche di lunga durata in comunità, che per quanto aperte e propedeutiche ad una vita autonoma, risultano estranee ai contesti di vita delle persone. Gli utenti sono pazienti dei servizi pubblici, con storie psichiatriche travagliate, costellate di ricoveri e Trattamenti Sanitari Obbligatori, diagnosi che lasciano poco spazio alla speranza: psicosi, disturbo schizoide di personalità… Etichette pesanti, comunicate anche ai famigliari, che guardano al futuro dei propri figli con amarezza e rassegnazione senza più investimenti educativi. Le terapie praticate sono principalmente a base di farmaci, neurolettici ed antidepressivi in primis.
Ho assunto questo lavoro anche con la motivazione della sfida. Una volta, in un seminario tenuto in un servizio pubblico, una collega psichiatra mi aveva contestato dicendomi che avrebbe voluto vedermi lavorare con persone che per condizione economica e sociale non avrebbero potuto permettersi una psicoterapia o non ne avrebbero retto gli effetti. Invece io credo che si possa essere strategici anche con pazienti che per storia sociale e sanitaria risultano “oggettivamente” meno dotati. D’altra parte i padri dell’approccio strategico avevano lavorato principalmente, se non esclusivamente, con pazienti istituzionalizzati. Don D. Jackson aveva fondato il Mental Research Institute proprio a partire dal lavoro su psicotici ed i loro famigliari. Milton Erickson aveva avviato le sue “terapie non comuni” in ospedale psichiatrico. Dovendo trattare con persone psicotiche e con disturbi di personalità, ho usato principalmente le manovre che si usano in questi casi, secondo la Terapia Breve Strategica (Giorgio Nardone model): il controdelirio, la congiura del silenzio ed il rituale del pulpito, il diario del delirio e delle paranoie, ma soprattutto la relazione carismatica.
Controdelirio
L’esempio più fulmineo di controdelirio che io ricordo è il caso descritto da Don D. Jackson del paziente che entra nella stanza della seduta psicoterapeutica, si siede e dice: “Dottore, dottore, lei sa che qui in questa stanza ci sono delle microspie?” Ed il dottore disse: “ Ah, sì? Cerchiamole!” Si misero a cercare insieme le microspie per un po’, finché il paziente si fermò e disse: “Dottore, qui uno dei due è pazzo!” Secondo la logica della contraddizione, il limite di un delirio è un delirio più grande, per cui la strategia usata con i pazienti in questi casi è o assecondare il delirio, condividendolo con il paziente, o idearne uno simile per struttura, ma più grande per contesto. Un medico o uno psicologo, semplicemente assecondando un delirio, creano un doppio legame terapeutico al posto dei doppi legami patogeni cui sono stati sottoposti i pazienti nei loro contesti. Analogamente nella comunità si creavano di volta in volta controdeliri calzanti. Ad un delirio religioso si rispondeva con un controdelirio religioso. Ad un delirio su base tecnologica (mi spiano attraverso il computer), si rispondeva con un controdelirio tecnologico.
La congiura del silenzio
Occorre evitare quello che tutti fanno sulle psicosi, basandosi sul senso comune e cioè le razionalizzazioni, le rassicurazioni, il dialogo, che ho visto fare anche da eminenti psichiatri, tutte cose che non funzionano, perché il portare a ragione il delirio lo fa radicare sempre più. Per cui è stata data la direttiva agli educatori ed agli operatori della comunità di evitare durante la giornata rassicurazioni o dialoghi sui sintomi. Ogni giorno, però, ciascun paziente aveva diritto ad una mezzora, contrattata nei tempi e negli spazi, di ascolto sui sintomi. L’operatore dava il palcoscenico in seduta, e cioè ascoltava in religioso silenzio il fiume delirante o paranoide della persona. In più o alternativamente si usava il diario del delirio. Si prescrive al paziente “tutto il contenuto delirante che tu hai o che tu senti, lo scrivi e lo porti a me così lo analizziamo”.
Relazione carismatica
L’evidenza che più balza all’attenzione nel lavoro con queste persone sono le tentate soluzioni degli operatori anche i più qualificati: o evitare il contatto perché troppo impegnativi (non è un caso che nelle strutture sanitarie l’avanzamento di carriera coincida con l’allontanamento dai pazienti. A volte ha più contatto con il paziente difficile lo specializzando che il direttore); o diventare complementari rispetto alle patologie con atteggiamenti di disponibilità “amichevole” che di fatto contribuiscono a cronicizzare il paziente. Abbiamo invece favorito una relazione che desse disponibilità, ma anche direttività, accoglienza rispetto ai sintomi ed alle visioni distorte, ma sistematicità nel perseguire gli obiettivi terapeutici. In particolare nei pazienti con disturbo borderline di personalità non sono tanto importanti le tecniche quanto il carisma dell’operatore, che deve proporsi come un buon modello. Per questo è stata data molta importanza, nella formazione dell’operatore di comunità, all’uso della comunicazione non verbale: il sorriso, lo sguardo, la postura, la gestione dello spazio prossemico ed il loro uso nel colloquio con le persone, cioè di tutti quegli aspetti che contribuiscono a fare dell’operatore un modello da seguire.
L’effetto dell’approccio strategico ad un’utenza da sempre trattata in modo tradizionale è stato eclatante. Come i pazienti descritti dal neurologo Oliver Sacks nel libro Risvegli, sembravano ridestarsi di fronte ad una comunicazione tanto diversa. Non più diagnosi psichiatriche e terapie farmacologiche, ma comunicazioni terapeutiche con possibilità di soluzioni. Non più tremori alle mani, effetto collaterale di neurolettici, ma possibilità di ridurre i farmaci in modo controllato. Dopo un anno di lavoro è ancora presto per stilare statistiche, ma devo dire che a giudicare da ritorni a scuola ed avviamenti al lavoro insperati, i primi risultati sono incoraggianti e spingono ad ulteriori sperimentazioni.
BIBLIOGRAFIA
- Haley, J., Uncommon Therapy, The psychiatric techniques of M. Erickson M.D., W.W. Norton and Co., New York; tr. it., Terapie non comuni, Astrolabio, Roma, 1976;
- G. Nardone, P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990;
- E. Sluzki, D. C. Ransom, Double bind, the foundation of the communicational approach to the family, Grune & Stratton, 1976, New York; tr. it., Il doppio legame, Astrolabio, 1979, Roma;
- Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fish, R., Change: principles of problem formation and problem solution, W.W. Norton Co., New York; tr. it., Change: la formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma.
- Sacks, O., Awakenings; tr. it., Risvegli, Adelphi, Milano, 1995.